Autobiografia, perché scrivere la propria e cosa c’entra con la lettura

Scrivere autobiografia è soprattutto la pratica di cercare: memorie, ma soprattutto le forme della memoria, sempre in relazione con altri. Un pezzo alla volta

In qualche articolo del blog ho accennato a un’esperienza di laboratori dedicati all’autobiografia che ho praticato alla Libera Università dell’Autobiografia di Anghiari. Si tratta di percorsi articolati  che tuttavia cominciano tutti con il primo, Graphein (Chi fosse interessato trova tutto sul sito. Su Anghiari città dell’autobiografia e il pensiero che ruota attorno alla LUA, consiglio una raccolta di saggi del fondatore, Duccio Demetrio, La vita si cerca dentro di sé. Lessico autobiografico, Mimesis). 

Le ricerche autobiografiche in verità non si concludono mai. Anzi, come vi diranno molti di coloro che ci hanno provato, scrivere autobiografia è soprattutto la pratica di cercare: memorie, ma soprattutto le forme della memoria. Lo consiglio a tutti. Ma qui vorrei lasciarvi solo pezzi di questo lavoro che sta continuando. E prefigurare un lavoro sulla relazione ovviamente strettissima e intrecciata fra le letture  – attuali, passate e future, le letture ripetute, raccontate o taciute, le letture ricordate o dimenticate; le  letture progettate – e le ricerche autobiografiche, la scrittura autobiografica.

Scrivere e cercare le proprie autobiografie comporta certo il rischio di guardarsi l’ombelico troppo a lungo. Eppure non una delle persone che ho conosciuto in questi anni di Anghiari mi sembra caduta in questa trappola. La pratica autobiografica può dunque essere, deve essere, orientata verso gli altri, è scrittura di relazioni. Per quanto distorte, sfocate, plasmate, illusorie, di finzione, oppure sincere, oneste, crude, troppo ravvicinate, dettagliate o imprecise e contraddittorie possano essere le pagine che via via ci troviamo sul tavolo. (Non a caso, ad Anghiari definiscono il lavoro «dalla scrittura della propria vita alla scrittura delle vite degli altri».) 

Tornerò presto sul proposito di elaborare la relazione multiforme fra autobiografia e letture. Intanto qui sotto metto l’introduzione («Prologo») alle Ricerche autobiografiche incluse nel primo lavoro fatto ad Anghiari. Prima trovate i link ai singoli pezzi di queste ricerche già pubblicate sul blog. Altri seguiranno presto.

Ricerche autobiografiche

L’ultima volta che vidi mio padre

Bainsizza, sulle tracce del nonno

Lo zio Pierino: le storie, il Corriere e Julio Cortázar

La lettera per Adam

Mimesis
Un insettaccio (1)

Un altro insettaccio

**

Digressioni

Il filo rosso, vorrei facessimo più domande

Riconoscersi nonostante tutto

Il diritto di ascoltare

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Esergo

“Questa cosa che ti sto raccontando parla della vita, perché la vita merita di essere osservata più da vicino. È la cosa che attraversi ogni giorno, e a malapena ti accorgi di lei. Ma in realtà è tutto quello che hai.” 

Richard Ford

“L’arte di scriver storie sta nel saper tirar fuori da quel nulla che si è capito della vita tutto il resto; ma finita la pagina si riprende la vita e ci si accorge che quel che si sapeva è proprio un nulla.”

Italo Calvino, Il Cavaliere inesistente

“Avrei voluto che i momenti della mia vita si susseguissero e s’ordinassero come quelli d’una vita che si rievoca. Sarebbe come tentare di acchiappare il tempo per la coda”.

Jean-Paul Sartre, La nausea

**

Prologo delle Ricerche autobiografiche

Una bella mattina soleggiata di gennaio del 2020, un autobus guidato da un signore con i capelli bianchi che sembrava conoscere tutte le storie di chi saliva e scendeva dal suo automezzo mi portò dalla stazione di Arezzo fino ad Anghiari. Insieme alle poche cose che mi sarebbero servite per passare quelle tre giornate – giornate che avrei trascorso dedicandomi a questa strana pratica del provare a scrivere la mia autobiografia alla Lua, la Libera Università dell’Autobiografia – nello zaino avevo una ventina di pagine già scritte e riscritte e corrette più volte, che, pensavo, sarebbero diventate uno dei pezzi di questo lavoro.

Mi parevano un buon punto di partenza. O meglio, ero quasi certo che quelle pagine fossero il motivo più forte che mi aveva convinto a questa avventura alla Lua.

Poi passai attraverso i laboratori ad Anghiari, i quali, detto con tutti gli sforzi per non sembrare retorico, un po’ ti cambiano. Non intendo dire che mi hanno cambiato la vita; ma certo hanno trasformato il modo di guardare la vita; o, meglio ancora, il modo un  po’ pigro che fin lì avevo usato per considerarla e raccontarla, soprattutto per raccontarla a me stesso, ancor prima che agli altri. 

Dopo i primi due incontri con il gruppo alla Lua, capii che quel che avrei voluto correggere nel modo di pensare alla mia vita era soprattutto la mia attitudine a giudicarla, a giudicarmi, a volte bene a volte male. Invece, qui si trattava di imparare davvero a “sospendere il giudizio”. Questo principio, secondo gli insegnamenti di una parte importante della filosofia del Novecento, della poesia e della letteratura, è la premessa metodologica, per così dire, di tutte le attività che avvengono nei laboratori ad Anghiari. Imparando a sospendere il giudizio nell’ascolto degli altri, come presto si viene invitati a fare alla Lua, si apprende anche, forse soprattutto, a sospendere il giudizio pure sul lavoro su di sé: sia sul modo di cercare dentro la propria vita sia dentro le vite degli altri, di coloro che abbiamo incontrati nel corso dei nostri anni.

Ora che questo lavoro autobiografico è avviato, posso dire, con un poco di orgoglio, che le pagine che avevo scritto prima di Anghiari sono rimaste. Sono davvero diventate il nucleo di un racconto e di una ricerca. Sì, perché quel che ho imparato ad Anghiari è soprattutto un metodo per cercare, o meglio, ri-cercare. Una ricerca che è ancora in corso e che non terminerà quando finirà questo libro. 

È una duplice ricerca. 

In primo luogo è la ricerca nella memoria, delle storie “non ancora raccontate”, che in effetti non sono storie, sono frammenti, intuizioni, profumi e sapori, sensazioni, immagini, forse voci, intere scene o vaghi ricordi di un volto, e vuoti, tanti vuoti. Ma, in secondo luogo, è anche la ricerca di una forma capace di configurare i ricordi; di selezionarli e connetterli, legarli; perché solo la configurazione dà loro una intelligibilità, li rende racconti, storia che si possa raccontare. 

Inoltre, questa configurazione è anche un percorso critico. Non sono certo che abbia ragione (vorrei che non avesse ragione) Antoine Roquentin, il protagonista narratore di La nausea di Jean-Paul Sartre, quando dice che bisogna scegliere: o vivere o raccontare.

«Quando si vive non accade nulla. Le scene cambiano, le persone entrano ed escono, ecco tutto. Non vi è mai un inizio. I giorni si succedono ai giorni, senza capo ne coda. […] Vivere è questo. Ma quando si racconta la vita, tutto cambia. Soltanto che è un cambiamento che nessuno rileva: la prova ne è che si parla di storie vere. Come se potessero esservi storie vere; gli avvenimenti si verificano in un senso e noi li raccontiamo in senso inverso. Sembra che si cominci dal principio: “Era una bella serata dell’autunno 1922. Io ero scrivano di un notaio a Marommes”. E in realtà si è cominciato dalla fine.»

Ma anche se Roquentin non avesse ragione fino in fondo (difficile convivere con l’idea che quando si vive non accada nulla), certo dobbiamo riconoscere che siamo di fronte a uno strappo, a una forzatura, quando raccontiamo la nostra storia. Perché la fine delle storie che raccontiamo dentro la nostra vita – e,  a tendere, la fine di tutta nostra storia – è sempre il vero punto di partenza. “La fine è lì presente a trasformare tutto”, la prospettiva che assumiamo per il racconto; ed è da lì che scegliamo cosa e come raccontare.

Questo strappo ci impone la fatica di scegliere, di cercare, di ri-cercare, appunto. Mette fine all’illusione che la nostra storia sia lì pronta per essere raccontata. Ci suggerisce persino che la nostra stessa storia, una volta raccontata, ci appaia mobile, provvisoria, suscettibile di cambiare: “Fra dieci anni, forse, scriverei una storia diversa della mia infanzia da quella che scriverei ora”, ho pensato, tornando in treno a Milano, dopo il primo laboratorio ad Anghiari.

Quando ho ricominciato a scrivere, ad andare oltre quelle prime pagine che avevo nello zaino al mio arrivo ad Anghiari, ho capito che per questo lavoro sulla memoria sarebbe dunque prima di tutto diventato una ricerca. Ho presto capito anche che dovevo abbassare il ritmo, lasciar fuori dalla porta la frenesia di arrivare alla fine. Soprattutto perché ancora era irrisolta la questione decisiva: quali pezzi di vita dovevano assumere la forma di storie da raccontare in questa autobiografia? 

La scrittura è da allora diventata come un cammino su un sentiero di montagna che sale con lunghi tornanti, proprio per evitare gli strappi; un cammino che favorisce l’osservazione e che, per interi tratti, non pensa alla destinazione, ma si concentra sul percorso, passo dopo passo. Anche se la destinazione rimane sempre sullo sfondo, a far da riferimento e, di quando in quando, lo sguardo cambia la messa e fuoco, e cerca anche la meta. Ma anche quando cerca la meta, lo sguardo dell’io che scrive questa autobiografia e che sa che sono le conclusioni che danno davvero forma compiuta alle storie, anche in questi casi, è divenuto consapevole che sono sempre mete parziali, luoghi dai quali si riparte, momenti di sosta più che case dove stare definitivamente.

Questo cammino, per così dire rallentato, mi ha aiutato molto; mi ha per esempio aiutato a concepire l’idea che questo lavoro autobiografico non dovesse necessariamente riguardare, subito in questa istanza, tutta la vita. L’ambizione, in un primo momento, frutto forse della grande effervescenza prodotta dal primo e dal secondo seminario di Anghiari, era di includere tutto l’arco dell’esistenza fino oggi. 

Poi però la scrittura mi ha come guidato, mi ha frenato, mi ha chiesto, se così posso dire, di cercare di più, di lasciarla muovere come in una spirale che da un centro gira lentamente intorno e scava, nel frattempo. Come un rabdomante alla ricerca dell’acqua, la mia scrittura finiva col tornare al nucleo dal quale l’autobiografia è cominciata: mio padre, alcune settimane del 1979. È un tema sul quale sono imperniate innumerevoli autobiografie e memoir: la morte del padre come tempo e spazio della ricerca della memoria ma anche come presidio dal quale partire per cercare il resto della vita. Dell’infanzia, per esempio, quel che fu prima che lui morisse o dell’ingresso nell’età adulta; e di alcune delle storie ricostruite, di poi. Ecco dove sono ora, alla ricerca. Ecco, nelle pagine che seguono, quel che ho cercato e trovato, finora.

***

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2 risposte a “Autobiografia, perché scrivere la propria e cosa c’entra con la lettura”

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