Il filo rosso, vorrei facessimo più domande

Foto di Matt Collamer (Unsplash), modificata con cartoonize

Io aspetto domande. È stato Pavel a farmi pensare che questo filo di lana rossa che mi è stato affidato, protetto da una piccola bustina di plastica, mi invitasse ad aspettare domande.

Il filo di lana rosso è corto. Non riesce a legare niente. Non si annoda. Si perde facilmente. Forse potrebbe essere annodato a un dito, come promemoria. Mi ricorda La nonna M., che mi faceva maglioni spessi a girocollo, molti rossi, alcuni blu, uno, una volta, nocciola. Questo nocciola non mi piaceva affatto, aveva uno scollo a V, troppo largo.

Il filo di lana mi ricordava la nonna Maria, ma non mi suggeriva cosa aspettassi.

Perciò l’ho infilato nella tasca della giacca, dove finisce spesso la mano destra quando non so esattamente cosa fare con le mani. Pensavo che tenendolo in tasca mi avrebbe ricordato che dovevo cercare cosa aspetto.

Poi ho trovato Pavel.

Abitava sotto un porticato in via Rucellai, poco prima dell’incrocio con Viale Monza. Un martedì sera Pavel dormiva sotto alcune coperte lise e macchiate. Un berretto di lana nero calato fino agli occhi, un paio di pantaloni piegati sotto la testa, cambio per domani, ci avrebbe detto poi.
Un messaggio ci aveva avvertiti della presenza di un uomo accampato da qualche giorno, uno nuovo nel quartiere, nell’angolo dove finiscono i portici, sul retro del supermercato. Addossate al muro, proprio dove i muri formano l’angolo, due grandi valigie.

Gli abbiamo portato un sacchetto bianco con dei biscotti, crackers, due succhi di frutta, della frutta, una bottiglia d’acqua e un bricco monodose di tè alla pesca. Quando si è svegliato, ha guardato intorno e ha sorriso. Si è seduto e ha ringraziato per il cibo, ha accettato anche un bicchiere di tè caldo che gli abbiamo versato dal contenitore termico con il rubinetto che ci portiamo in giro. G. e io ci siamo accovacciati per parlargli da vicino. Faticava a rispondere in italiano, ha detto di conoscere un po’ di francese, perché prima di arrivare a Milano era in Francia, a Lione.

Come stai? hai freddo? hai fame? Non vuoi andare a dormire in un dormitorio? Le domande che si fanno sempre ai “senzatetto” che avviciniamo, questa volta in un francese scolastico, senza fantasia. Pavel ha risposto di no, che non voleva andare a dormire da nessun’altra parte, che stava bene lì con le sue coperte. Non voglio un dottore e nemmeno un dentista. Non voglio essere toccato da nessuno. Però ci ha parlato della sua famiglia, nella Cechia, dei figli e dei nipoti.

Mentre Pavel parlava, tastavo il filo di lana in tasca, l’ho anche tolto dalla bustina. È stato allora che ho pensato il filo poteva avere a che fare con le domande. Le domande vanno fatte da vicino, vanno curate, possono formare relazioni, magari precarie, ma possono anche saldare; le risposte devono essere ascoltate. Ma le domande possono anche disperdersi, rompersi, essere ignorate, dimenticate.

Da mesi rifletto sulle domande. B. è una signora anziana che fa parte della mia famiglia allargata. La vedo molto spesso, quasi ogni giorno. Da B. ho imparato che è meglio una domanda che sembra indiscreta piuttosto che lasciare da parte qualcuno, lasciarlo senza domande.

Pavel ci ha detto che venerdì sarebbe partito da Milano per andare a Venezia e da lì a Vienna e poi a Brno. Ha disegnato nell’aria con un dito, su un’immaginaria mappa dell’Europa, il suo viaggio. Ci ha precisato che lui è ceco, non slovacco. Son tutti fascisti gli slovacchi, ha aggiunto ridendo. Ha detto di avere 68 anni, un tremore nella voce, la tosse, forse è stato il risveglio improvviso. Aveva molto cibo attorno, mangiare no problem, ha detto, gente brava, me ne porta. Sorseggiava il tè caldo, nel quale, elegante e composto, ha versato la vodka che tiene in un thermos di acciaio lucido.

Il lungo corpo di Pavel era circondato da buste di prosciutto cotto, tacchino; pezzi rettangolari di formaggio protetti dalla confezione in plastica del supermercato, impilati uno sull’altro. Pacchetti di pane, bottiglie di aranciata e una torta. Tutto ben in vista e ordinato.

Abbiamo esitato davanti a Pavel. Ha rotto il silenzio dicendoci che la radio – una radio lunga e bassa, con due altoparlanti che si intravedono dietro la trama di plastica nera – ha spiegato che in Moravia fa ancora molto freddo, non come a Milano.

Sul furgone che Z., un ragazzo della Costa d’Avorio, guida ogni sera con volontari diversi per le strade della città, ho tolto il filo di lana rossa dalla tasca.

Che ci fai con un filo di lana?, mi domanda G. Gli ho raccontato della Casa della Cultura, della scrittura autobiografica, di Anghiari, dell’Archivio dei diari e del Museo di Pieve Santo Stefano.

Ogni martedì notte dopo il turno sul furgone, quando torno a casa racconto di una delle persone che abbiamo incontrato, piccoli pezzi di storie, che a volte si ricompongono, si allungano, settimana dopo settimana. Mia moglie mi chiede sempre di una delle signore che dormono attorno alla stazione, siede e ascolta. 

Martedì notte mentre tornavo a casa, un amico che abita in Piazza B., mi ha scritto un messaggio, come stai? Cos’hai letto oggi? C’era qualcuno di nuovo sulle panchine di via M.? Non rispondere adesso però, ha aggiunto. Ne parliamo domani.

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3 risposte a “Il filo rosso, vorrei facessimo più domande”

  1. Gentile Luigi la tua costante presenza nel blog è una specie di ancora di salvezza. Bisogno di domande e tentativi di risposta. Cordialmente Camilla

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  2. […] Il filo rosso, vorrei facessimo più domande […]

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