Sull’Altopiano un ragazzo e un signore anziano alla ricerca delle memorie di un soldato della Grande guerra
Per molto tempo ho considerato con distacco e un disinteresse pigro e sonnolento gli anni della mia infanzia, che mi sembravano così ordinari da non meritare lo sforzo di un ricordo più concentrato e uno scavo impegnato. Solo la maturità e l’attenzione a una disciplinata pratica di scavo che si è affermata in questi anni – e in particolare durante l’esperienza suscitata da Anghiari – hanno contribuito a riportare attenzione su quel periodo così sfocato e lontano. Ne sono emersi momenti, scene, frammenti di ricordi, ai quali, faticosamente, provo a dare forma. Sembra dominare tutto qualcosa simile al meccanismo dei ricordi involontari così ben raccontato e spiegato da Marcel Proust, che mostra però i fatti e i pensieri che affiorano come se fossero fuori dal controllo della mia attività del ricordare. Soprattutto ho difficoltà a intravedere un filo, la continuità. Ed è solo con molta fatica di cucitura fra i pezzi ricordati che si stabilisce un prima e un dopo, e, forse, un senso.
Il nonno Peppino, per esempio. Il nonno Peppino lavorava in un cubicolo basso di cemento con un tetto di tegole e una grande porta che si apriva sul giardino verso sud e una finestra sul lato a ovest, proprio davanti al quadrato di terra dove papà coltivava, dalla primavera all’autunno, un piccolo ma ben fornito orto che faceva da contrappunto alla sua passione per i fiori, ai quali si dedicava, in primavera e in estate e per le preparazioni dell’autunno, la sera quando tornava dall’officina meccanica dove lavorava, dove avrebbe lavorato fino a pochi mesi di prima di morire. Il nonno Peppino, il papà di mamma, era calzolaio, ciabattino, anche se né il nonno, né altri in casa usarono mai la parola “ciabattino”; no, il nonno era un “calzolaio. Mia mamma Lina invece stava nel negozio a vendere le scarpe nuove e a prendere gli ordini per le riparazioni, che segnava a matita, insieme con il nome del cliente, su un piccolo ritaglio di carte, che poi infilava nella tomaia.
Il nonno aveva un vero attaccamento morboso alla carta, quasi un’ossessione che si manifestava soprattutto contro lo spreco. Lo spreco della carta gli sembrava una specie di tradimento, un peccato imperdonabile. Era dato per inteso che anche i fogli dei quaderni di scuola, strappati per via di errori o troppe cancellature, venissero recuperati per separare e ritagliare accuratamente le parti che ancora si potevano usare per scrivere o fare i conti del negozio o delle riparazioni.
Anche se non è il primo ricordo del quale ho una coscienza articolata e non solo vaga e quasi onirica come molti altri, certo ricordo bene ed è un ricordo che potrei definire fondativo, come una delle prime scene importanti del primo anno di scuola, quel pomeriggio in cui il nonno, con pazienza e attenzione mi spiegò che i fogli, anche già scritti, o colorati, dei quali avrei dovuto liberarmi perché pieni di cancellature, non dovevano invece essere buttati nella spazzatura, ma conservarti, senza accartocciarli. Mettili nel cassetto sinistro del banco del negozio – mi disse –, non piegarli mi raccomando; perché io poi li prenderò e li taglierò in modo che le parti non troppo scritte né tutte colorate, come queste – aggiunse prendendo una pagina del quaderno ‘di brutta copia’ che avevo accanto sul tavolo – diventino dei piccoli foglietti sui quali farò di conto, segnerò gli ordini dei materiali che mi servono per riparare le scarpe e la mamma farà l’elenco delle scarpe da comprare per rifornire gli scaffali del negozio.
Mamma, oltre al negozio di scarpe, doveva badare a mio fratello piccolo e a me, tenere in ordine la casa e cucinare per papà che tornava per pranzo dall’officina. La nonna Maria allora era ancora giovane e si dava molto da fare in aiuto della mamma, anche se soprattutto doveva dedicarsi al nonno Peppino.
La mattina presto il nonno usciva dalla sua camera appena sveglio ma completamente vestito. Dalle scarpe alla cravatta. Solo negli ultimi due o tre anni di vita le stringhe gliele annodava la nonna e forse anche la cravatta, che indossava sempre, tutti i giorni. Appena sveglio beveva solo il caffè e cominciava subito a lavorare nel suo sgabuzzino in fondo al giardino, con indosso la camicia, a volte anche il gilet, la cravatta e sopra la giacca, che si toglieva solo d’estate ma solo quando cominciava ad armeggiare sul mucchio di scarpe con le suole bucate o i tacchi consumati, che lui trasformava in innumerevoli calzature della festa, di nuovo piene di dignità, con la pelle lucidata dalla pasta densa – il lucido – nera o marrone, e poi con la vernice nera sul bordo della suola e del tacco. Il nonno lasciava asciugare il lucido e la vernice e poi, con una macchina che sembrava uscita da un passato industriale quasi mitico di prima della guerra, una lustrascarpe elettrica che faceva un rumore forte forte e acuto, alta circa un metro e mezzo, con cinque o sei rulli sui quali erano spazzole di grandezza e materiale differenti. Le scarpe erano sottoposte a una specie di cura definitiva, dopo la quale non sembrava sarebbe stato necessario, per il resto dei giorni, intervenire. Stavo seduto su uno dei vasi di fiori che papà fabbricava nel tempo libero e riempiva di terra e piante e disponeva nel giardino; alcuni erano proprio di fronte all’ingresso del laboratorio del nonno; la porta d’estate era aperta, così io, e a volte i miei cugini o la bambina che abitava in fondo al giardino, nella casa che il nonno aveva affittato a una famiglia della provincia di Brescia venuta a Milano a lavorare, guardavamo il lavoro del nonno, che si concludeva disponendo le scarpe riparate in fila, un paio dopo l’altro, lungo il muro del laboratorio, dove asciugavano fino al pomeriggio, quando, poco prima che il negozio riaprisse, venivano portate fino alla scansia di legno lucido, a destra dell’ingresso. Qui aspettavano che i legittimi possessori venissero a riprendersele.
Nella scarpa destra di ciascun paio, rigorosamente la destra, il nonno collocava un piccolo cartoncino sul quale riportava il nome del proprietario, due o tre parole che indicassero che lavoro fosse stato fatto e il prezzo. Il cartoncino, in genere bianco, ma in alcuni casi anche di altri colori leggeri: giallino, beige, nocciola, grigio, era accuratamente ritagliato, in modo da sfruttare al meglio tutta la superficie, da certi coni che in alcune fabbriche di produzione delle scarpe gli operai forzavano dentro le tomaie per mantenere la forma intatta di quelle calzature di pelle morbida. Restava inteso da tempo immemorabile che vendendo le scarpe nuove, salvo quando il cliente esplicitamente diceva di volersi tenere quei conetti, la mamma dovesse estrarre i cartoncini, riporli in un cassetto sotto il banco di vendita, dal quale il nonno li avrebbe poi prelevati e, forbice alla mano, li avrebbe sagomati per usarli per descrivere le riparazioni che aveva completato.
A metà mattina e a metà pomeriggio, quando il nonno Peppino interrompeva il lavoro per la sua strana colazione tardiva e la merenda, c’erano i veri momenti di tensione della giornata, soprattutto per la nonna Maria il cui compito nella vita, visto dalla prospettiva del nonno, mi pareva fosse esclusivamente apparecchiare con un quarto di tovaglia il posto a capotavola in cucina, con le spalle rivolte a est, il posto che il nonno ha occupato per tutta la vita, e servirlo qualche secondo prima che lui uscisse dal bagno dopo un’accurata pulizia delle mani; quando si sedeva a tavola gli dava particolare fastidio la tenace e puzzolente formidabile colla che si fermava sulla punta delle dita e attorno alle unghie, dove non bastava lavarsi, ma era necessario intervenire in altri modi, soprattutto con uno spazzolino. Completate le operazioni di pulizia, che avrebbe ripetuto varie volte durante la giornata, entrava in scena la nonna che era pronta a servire una incredibile colazione a base di uova, cipolla, ravanelli, olio e aceto, molto pane. Al termine di questi pasti di metà mattina e di metà pomeriggio, consumati in silenzio ma masticando rumorosamente con alcuni schiocchi di lingua per liberare i denti dal cibo, beveva mezzo bicchiere di vino rosso. I momenti davvero memorabili, non molto frequenti, li si viveva quando la nonna era in ritardo di qualche minuto sulla preparazione. Il nonno cominciava a urlare, a sbraitare, batteva il pugno sul tavolo. La nonna restava annichilita, mai la udii lamentarsi di quei modi; forse ogni tanto ravvisai sul suo viso un sorriso ironico, una specie di benevolo compatimento, ma forse è solo una mia illusione retrospettiva.
Non ho invece precisi ricordi di come reagisse mia mamma.
Lei era quasi sempre in negozio, oppure doveva badare a mio fratello. Mamma era sempre affaccendata, tra l’allattamento, il negozio e, se non c’erano clienti, le corse al piano di sopra a rassettare le camere, per poi precipitarsi di corsa sulle scale quando sentiva il rumoroso campanello elettrico che suonava ogni volta che si apriva la porta del negozio.
In quegli anni, per un po’, vennero ad aiutare nelle faccende di casa alcune signore che abitavano vicine a noi e che integravano i salari dei mariti con alcune ore nelle case di chi poteva permettersi un aiuto. Ricordo invece che la zia Teresa, la sorella più piccola di mia mamma, nei mesi che passava con noi a casa, si stupiva ancora molto e si impressionava ancora, nonostante conoscesse le abitudini di suo padre, quando questi attaccava a urlare. Credo fosse l’unica a dirlo, a dare voce in modo esplicito a quel sentimento di fastidio e, forse, di paura, che le scenate del nonno le suscitavano. Ancora oggi, a distanza di tanti anni, quando nelle riunioni familiari che si tengono l’estate o nelle festività di Natale, quando torna in Italia o quando qualcuno di noi va a visitare gli zii a Pittsburgh, la zia Teresa evoca con stupore quelle arrabbiature di suo padre, che lei temeva più delle due sorelle.
Il nonno Peppino poteva dunque rimanere nella mia memoria come un uomo burbero e di poche parole, dedito al suo lavoro e soprattutto un uomo che ha condizionato la figlia maggiore, mia mamma, diventata adulta con un legame affettivo forte con il padre, con il quale doveva condividere prima, e via via assumere su di sé poi, la responsabilità degli affari di famiglia, il negozio e la riparazione delle scarpe. Responsabilità fatta di fatica e preoccupazioni e tanto impegno che l’ha certo affaticata, anno dopo anno, ma le ha anche dato forza e dignità ed è stato lo strumento economico ed emotivo per riprendersi dopo la morte di papà, vedova a 50 anni, con due figli ai quali, con il suo lavoro, ha permesso di completare gli studi e ha avviato nella vita. Credo si possa dire – adesso, a distanza di decenni – che la combinazione fra questo impegno di lavoro e la fede, le permisero di affrontare i terribili primi anni senza papà. E il suo cattolicesimo – che io ho a lungo considerato retrivo e bigotto e che per alcuni anni ha ostacolato le mie relazioni con mia mamma, soprattutto davanti al modo in cui io e mio fratello ci siamo avvicinati alle donne – si è lentamente ma con sicurezza trasformato negli anni in un sentimento di passione e compassione più aperto, più dolce, più tollerante e meno austero. Credo ciò sia avvenuto grazie anche – mi piace molto pensarlo – alle letture intense e continue di romanzi, anche di classici, che son diventati, dopo il grande dolore della perdita del marito, accompagnamento fedele della sua vita e nuova abitudine e attitudine per affrontare il mondo e che ancora oggi, ora che ha superato i 90 anni, sono un valido strumento di vita buona. Negli anni si è così via via aggiunta la disponibilità ad ascoltare anche le voci dissonanti, disponibilità che da ragazzo non ricordo. Riemerse allora, la sua bontà e mitezza naturale che in alcuni momenti sembrò soffocata dalla gelosia per i figli che entravano soli nel mondo e dallo sfarinarsi dei riferimenti tradizionali di religione e costumi, da affrontare prima con papà malato e poi, soprattutto, quando lui morì, da sola.
Dicevo che dunque questo finora evocato poteva essere il mio ricordo del nonno Peppino. Un uomo che incombeva sulla sua famiglia; un uomo tutto d’un pezzo che concedeva pochissimo alle emozioni e raramente si lasciava andare a manifestazioni esplicite di affetto con la moglie e le figlie, o con noi nipoti.
Invece il nonno Peppino aveva una fenditura nella sua tela abituale da mostrare alla famiglia e forse anche agli amici che incontrava ogni pomeriggio all’osteria Pedrocchi per una partita a carte e un quarto di vino, prima di riprendere il lavoro e poi, con la pensione, per una parte più lunga del pomeriggio. E fu probabilmente attraverso questa fenditura che il ricordo che ho di mio nonno Peppino assunse le sfumature di affetto che la sua rappresentazione quotidiana sulla scena famigliare non mi permise, da bambino, di cogliere. Quella che chiamo fenditura era un’esperienza emotiva comune alla generazione del nonno.
Giuseppe Caprotti, classe 1898 era un Cavaliere di Vittorio Veneto. Si portò per tutta la vita con sé l’orgoglio e la commozione, esplicita e manifesta, per la resistenza sul Piave tra la fine del 1917 e il 1918 e per l’offensiva dell’autunno del ‘18, che portò alla vittoria nella battaglia decisiva, e per questo di enorme portata simbolica, con la quale l’esercito italiano prevalse su quello austro-ungarico nella Grande Guerra. Ora la Grande Guerra sembra così lontana, lontana già più di un secolo, ma allora, negli anni ‘60 e ‘70, i reduci ci sembravano sì anziani ma ancora molto attivi, pronti ad affermare con orgoglio quell’identità storica che li aveva segnati per tutta la vita. In famiglia si notava e si sarebbe ricordato infinite volte dopo la sua morte – ancora oggi mia mamma, la figlia maggiore, la più legata a lui, la più devota, evoca questi momenti – si ricordava dunque in famiglia che il nonno Peppino piangeva ogni volta che un discorso, un articolo di giornale, un servizio alla tv, evocava la Grande Guerra. Piangeva commosso, taceva e, spesso, lasciava la stanza; o si allontanava dal capannello formato davanti al monumento ai caduti il giorno “anniversario della vittoria”, il 4 novembre. Per lui era difficile, lo capii ben presto, ancora bambino, parlare con calma e controllo di quell’esperienza inaudita, formidabile e spaventosa, quella guerra che, quando era ancora un ragazzo, visse con milioni di altri ragazzi, una generazione falciata dalla morte, dalle mutilazioni, dalle ferite, dai danni permanenti causati dai gas. Una tragedia immane generata dalla condotta scellerata degli uomini, i politici e i militari e i propagandisti dell’Europa civilizzata che come sonnambuli spinsero il continente verso una carneficina assurda e senza precedenti: milioni e milioni di morti, mutilati, feriti e invalidi per sempre, civili uccisi e milioni di sfollati e poi l’influenza – la micidiale Spagnola – diffusa dagli eserciti in movimento prima e in smobilitazione poi, con i sopravvissuti che tornavano a casa e diffondevano il morbo.
Lo immagino, il nonno a 25 anni; cerco di vederlo nel suo mondo, tornato dalla guerra da un paio di anni. Lo vedo in una grande foto con la nonna, scattata poco dopo il matrimonio, nel 1923. Ha gli stessi zigomi pronunciati di mia mamma, lo stesso volto, ma ringiovanito, di come lo ricordo quando viveva con noi, quell’uomo che in casa era sempre di poche parole, e spesso urlate, che visse con noi fino al 1975, quando morì. Nella foto a mezzo busto è vestito di tutto punto. È l’abito del matrimonio, dice mia mamma, con la quale, in queste settimane di lavoro sull’autobiografia, abbiamo parlato di questa grande stampa che ha voluto che portassi a casa mia, come se potesse tornare ad assumere rilievo ora che un nipote del nonno si stava occupando di lui scrivendone. Il fatto che sia l’abito da matrimonio lo si intuisce anche osservando il fazzoletto bianco, accuratamente piegato nel taschino della giacca.
La grande stampa è composta da due ritratti singoli affiancati, come usavano fare i fotografi in quegli anni; la nonna Maria, alla sua destra, è anch’essa vestita di nero, elegante ma non nel suo abito da sposa. Non sorridono, non si sorrideva in quei ritratti, le labbra sono chiuse ma non serrate, i volti distesi. A casa ne abbiamo parlato con Anna e due dei ragazzi, due dei nostri figli, che quel giorno di fine dicembre erano con noi: – Dove lo mettiamo? Poi si è deciso di appenderlo sulla parete della sala da pranzo, proprio sopra la porta che entra in cucina; è una presenza rilevante, visibile ma discreta, come i due volti. Una sera di questo dicembre che chiude il 2020, a 97 anni dal momento in cui venne stampata questa doppia foto, chiusa in una cornice marrone scuro, ho cercato dunque di immaginare il nonno in quegli anni e in quei mesi, dopo la smobilitazione dell’esercito, il fidanzamento e matrimonio, mentre l’Italia abbracciava e subiva il fascismo, dopo due anni di squadrismo contro i sindacati e i socialisti, i comunisti e una parte dei cattolici impegnati nell’affermazione e difesa dei diritti dei lavoratori. Ebbene, gli storici e i documenti ci hanno insegnato quanto lo squadrismo fosse figlio del reducismo della Grande Guerra e quanto la violenza delle trincee e la mitologia degli Arditi del Popolo e i deliri dannunziani e gli slogan della “vittoria mutilata” si trasferirono nelle città e nelle campagne, messe a ferro e fuoco dai fascisti. Io invece non ho mai saputo che pensieri mio nonno avesse sul fascismo, almeno dagli anni ‘20 alla guerra, all’aggressione alla Francia. Poi, alla fine della parabola, durante i tragici mesi seguiti all’8 settembre del ‘43 so che il fratello maggiore di mia mamma, Gino, lo zio Gino – del quale ho ereditato il nome e una certa somiglianza nel viso, a giudicare dalle poche foto rimaste di lui, una delle quali è da sempre ben in vista a casa dei miei genitori –lo zio passò qualche giorno a San Vittore, per sospette attività antifasciste denunciate da un agente della milizia repubblichina che più volte lo aveva minacciato. In casa quando ero un bambino non sentivo quasi mai parlare di politica, o almeno non ricordo di averlo sentito, anche se la presenza quotidiana del Corriere della Sera certo ne avrebbe consentito la conoscenza e consapevolezza. Papà ne parlava, credo, con i suoi amici, ma non a casa. E certamente nessuno mi parlò mai del pensiero del nonno negli anni ‘20.
Quando nel corso degli anni provai a chiederlo a mia mamma, mi rispose che il nonno non si interessava di politica: – non so esattamente cosa pensasse, non ne hanno mai parlato il nonno e la nonna, almeno per quanto mi ricordi io. Poi, alla fine – aggiunge ogni volta mamma – fu lo zio Gino a fare capire a tutti noi cosa stesse succedendo in Italia e sui fronti europei, con la Russia che spingeva da est e gli americani con gli inglesi sbarcati, in Sicilia, ad Anzio in Normandia; lo zio aveva anche sentito a Radio Londra – aggiunse una volta – le prime notizie sui campi della morte nell’Europa orientale, quando la seconda guerra era quasi finita.
In anni di letture sulla Grande Guerra, ho a volte immaginato, desiderato, di scovare in qualche scatola di cartone nascosta in un armadio della camera da letto dei nonni o in uno scaffale polveroso in cantina, dei diari, delle lettere del nonno dei tempi della guerra. Ho sempre associato il nonno alla storia del ’15-’18, come se la sua esperienza bellica avesse scelto naturalmente e per sempre ciò che di interessante avrebbe potuto dirmi sulla vita. Avrei per esempio voluto leggere, o ascoltare il suo racconto, di come il nonno avesse vissuto l’esperienza della disfatta di Caporetto. La rotta di Caporetto o la “ritirata di Caporetto” come i documenti ufficiali, i giornali dei reduci, i discorsi dei militari hanno sempre chiamato quell’evento catastrofico che – a guerra finita e nella retorica revisionista della storia voluta da Mussolini – è stato messo tra parentesi, fra il “maggio radioso” – il colpo di Stato che costrinse il paese a entrare in guerra nel 1915 – e la “vittoria” del novembre 1918, dopo la battaglia di Vittorio Veneto. Quando mio nonno morì io avevo 15 anni e non ricordo di averlo mai sentito parlare di Caporetto. Il nonno parlava sempre di quel che avvenne dopo, in particolare di quando l’esercito italiano guidato da Armando Diaz si assestò sul Piave, dove venne fermata l’invasione austro-ungarica e da dove cominciò la riscossa. Di questo parlava il nonno, esattamente come faceva la sua canzone preferita, almeno all’apparenza, “La leggenda del Piave” che quando si incontrava con i commilitoni nelle cerimonie ufficiali, il 4 novembre, cantava e che gli causava i suoi proverbiali pianti di commozione. Ma il resto? Tutti i morti, il sangue, la sofferenza, la vita quotidiana? E la paura di morire?
Forse non voleva riaprire alcune ferite della memoria. Come se parlare della morte subita o vista e di Caporetto e di quel che aveva rappresentato, fosse come aprire una breccia su qualcosa che gli avevano insegnato a non guardare e che nell’intimo sentiva davvero come una ferita privata e collettiva.
Forse la revisione della storia imposta negli anni ‘20 dalla retorica fascista della “vittoria mutilata”, ma soprattutto dalla mistica della memoria dei “caduti”, del “sangue della patria” lo aveva davvero indotto a riorganizzare il suo discorso personale sulla Grande Guerra attorno alle parole d’ordine ufficiali di un regime che contava moltissimo sulla reinterpretazione della storia recente in chiave di creazione del consenso.
Solo quando la mamma o mio padre lo accompagnavano a casa di qualcuno che aveva combattuto con lui fianco a fianco, e che continuava ad andare a trovare – miei amici fraterni li definiva – allora credo che parlasse anche del resto, di ciò che non diceva a nessun altro. Ricordo per esempio che si andava almeno tre-quattro volte l’anno a Cermenate, un piccolo centro vicino al lago, non lontano da Como, dove viveva con la moglie e i figli in una bella cascina di campagna uno degli artiglieri che avevano servito con lui sul fronte dell’Isonzo. Si ritiravano in un salotto da soli, con una bottiglia di vino, e, dietro la porta accostata, parlavano per un paio di ore, soli, senza che nessuno li interrompesse; forse solo la moglie del signor Carlo, per chiedere se volessero mangiare qualcosa, del salame e del pane, per accompagnare il vino che il signor Carlo – ricordo che il nonno lo diceva sempre sulla via del ritorno – ordinava dal Piemonte in una damigiana, e poi imbottigliava nel cortile della cascina insieme con i due figli.
Quando tornavamo verso casa, in auto, allora il nonno diceva qualcosa, accennava a mezza voce, così credo di ricordare, lasciava che qualcosa affiorasse di ciò che nel colloquio intimo con l’amico aveva assunto forma e voce.
Fu in uno di questi viaggi di ritorno da Cermenate – avevo forse nove o dieci anni – che scoprii per la prima volta la parola “Bainsizza”.
Era un tardo pomeriggio di giugno e quel nome si impresse nel mio immaginario: mi parve, nel suono e nella sequenza di consonanti, evocare qualcosa di vago e terribile. Per la prima volta, mi resi conto anni dopo, ebbi la sensazione confusa, che avrei elaborato molto più tardi pensando a quel pomeriggio, che in quell’esperienza del nonno ci fosse stata anche la vicinanza della morte, la paura, l’odore del sangue, le urla dei feriti, il bisbiglio dei cappellani militari che somministravano l’estrema unzione. Le lacrime del nonno, che vedevo, o intuivo forse, dal sedile posteriore della millecento guidata da mia mamma, con il nonno accanto a lei, mi sembrarono diverse dalle lacrime solite che apparivano nei suoi occhi nei giorni delle cerimonie del 4 novembre o quando in televisione o sul Corriere si evocava il grande conflitto. Scoprii dunque – anche se mi servirono alcuni anni – che l’altopiano della Bainsizza era molto più a est del Piave, che il nonno aveva combattuto anche lì e che prima del Piave c’erano stati altri eventi in quella guerra, che prima del generale Armando Diaz c’era stato Luigi Cadorna e c’era stata Caporetto.
Quando immaginai (e sperai) di trovare un diario del nonno di quei mesi, pensavo a un diario o a lettere come quelle che scoprii nel 2018 a Pieve Santo Stefano al “Piccolo museo del diario”, l’esposizione che racconta e rende facilmente accessibile a tutti lo straordinario patrimonio dell’Archivio diaristico nazionale. Perché nel museo e nell’archivio, il materiale scritto dai militari e dai civili relativo alle esperienze nella Grande Guerra è davvero immenso e le testimonianze su Caporetto e le battaglie dell’Isonzo, prima della resistenza sul Piave, sono probabilmente la maggior parte. Il fascino dell’archivio e del museo del diario è stato un altro dei motivi decisivi per arrivare alla Libera università dell’autobiografia di Anghiari, ma sullo sfondo c’era anche un desiderio a lungo coltivato e ricco di eventi immaginati sui racconti mancati del nonno. Le scritture che si trovano a Pieve e negli altri archivi diaristici italiani, in particolare l’Archivio ligure della scrittura popolare (Alsp) di Genova e l’Archivio di scrittura popolare trentino, disegnano la possibile via di una uscita dall’anonimato nel quale il conflitto e la sua gestione brutale e burocratica avevano confinato milioni di uomini mobilitati e i loro famigliari e tutti i civili che nelle retrovie e nel resto dell’Italia lavoravano per lo sforzo bellico e soffrivano le ristrettezze e l’ansia e la paura per chi stava combattendo. Ha scritto Antonio Gibelli, storico, autore di alcune importanti opere sulla prima guerra mondiale, tra le quali una dedicata proprio alle scritture di guerra – lettere, cartoline, diari, taccuini di appunti – dal fronte e dalle retrovie: “Noi non parliamo dei circa quattro milioni di maschi italiani che fecero per tempi più o meno lunghi l’esperienza del fronte, ma di alcuni di loro, di cui conosciamo nomi e cognomi, il luogo di residenza, la condizione sociale e professionale, spesso anche la composizione della famiglia, le competenze alfabetiche, e anche se uscirono vivi dal conflitto o se ne furono ingoiati”.
Fu uno sforzo grande per comunicare l’esperienza enorme e inaudita ai familiari, alle consorti e agli amici, ancora prima del desiderio di uscire dall’anonimato della storia. In questo quadro, vagare per il Piccolo museo di Pieve è un po’ come riconoscersi in quel bisogno di trovare prima di tutto il filo di vite che hanno desiderato tessere delle trame di se stessi, delle proprie storie.
Prima di capire e elaborare cosa significasse quel “Bainsizza”, pronunciato a voce bassa e sommessa dal nonno Peppino sulla millecento, quel pomeriggio di giugno, dovevano passare alcuni anni, e con gli anni un viaggio e una lettura intensa. Fu nel 1973, avevo 13 anni, e capitai in una strana vacanza offerta da una cugina insieme all’uomo che stava per diventare suo marito. Mi portarono a Opicina, periferia est di Trieste, un luogo affascinante nella campagna del Carso, a pochi metri dal confine con l’allora Jugoslavia. I genitori di Giorgio, così si chiamava l’uomo di mia cugina Marialisa, vivevano appena fuori dal centro abitato di Opicina, in una grande casa su due piani, con un enorme giardino pieno di alberi e fiori e un grande prato solcato da due vaste doline. Era una casa di fine ottocento, appartenuta ai nonni di Giorgio, con una piccola cucina piena di padelle, piatti, sacchetti di pane, dolci, frutta e perennemente abitata da uno dei tre o quattro gatti di casa. Il resto, prima di salire alle camere da letto, il resto del piano terra era un piccolo salotto con una libreria e due poltrone e uno scrittoio che, con una porta a doppio battente, portava nel grande salone dominato da un pianoforte a coda, che non sentii mai suonare, – lo suonava sempre mia mamma, mi disse la signora Nives, la madre di Giorgio. Nel salone c’erano mobili con vetrine ricche di teiere, tazze, piatti; e alle pareti quadri a tempera e acquerello, e disegni di scene urbane a carboncino. Il salone, attraverso un’alta ampia porta, terminava nel luogo più magico e affascinante di quella casa: una veranda in ferro dipinto di bianco, con i rettangoli di vetro spesso che illuminavano quello spazio arredato da un solo tavolino di ferro dipinto di bianco, con due sedie da giardino e un piccolo divanetto collocato nel punto più illuminato dalla luce proveniente da est, il luogo migliore – mi disse Nives quando arrivammo a casa un pomeriggio di inizio agosto di quell’anno per cominciare una vacanza che per me si sarebbe rivelata davvero originale – per leggere, se ti piace leggere, mi disse con uno sguardo di sottecchi, oppure, come faccio sempre più spesso io, per compilare – ricordo come fosse oggi che disse proprio “compilare” il che mi parve estremamente singolare – i cruciverba della “Settimana enigmistica”.
Non ci conoscevamo Nives, Ado ed io, a parte un breve incontro qualche mese prima. Eppure le ore migliori delle giornate in quella vacanza di tredicenne furono quelle trascorse a curiosare in quella casa, un curiosare svagato e trasognato che puntualmente si risvegliava quando incontravo uno dei due coniugi che mi faceva qualche domanda discreta, o mi raccontava la storia di un oggetto della casa.
Fu in uno di questi colloqui, che spesso riguardavano storie di quei luoghi di confine, del Carso o della città di Trieste – entrambi, Nives e Ado, erano nati poco dopo la fine della Grande Guerra – che il signor Ado mi chiese del nonno Peppino. Credo lo avesse conosciuto uno o due anni prima, in occasione di una certa festa, a casa di zia Elena, la madre di Marialisa, durante la quale mia cugina aveva presentato il fidanzato e i suoi genitori. Marialisa era la seconda figlia di zio Gino, il fratello di mia mamma, morto a trentaquattro anni per una malattia al fegato, una cirrosi causata o aggravata dall’alcol – così mi avrebbe spiegato più tardi mia mamma – che consumava soprattutto la mattina dei giorni di mercato, quando con la moglie vendeva i materassi nei mercati di Milano e dintorni e di frequente interrompeva il lavoro con amici e conoscenti gustandosi un bicchiere di vino bianco con il Campari. Gino è rimasto nella memoria di famiglia per via del grande amore per una giovane ragazza che avrebbe poi lasciato vedova giovanissima con i due figli i miei cugini Piero e Marialisa; ma anche per le due notti a San Vittore per il suo antifascismo, per il grande amore per l’Inter ma anche per Gino Bartali. Sul ciclismo era in contrapposizione con il suo amico Angelo, mio papà, che invece tifava per Fausto Coppi. La mia famiglia è sempre stata molto legata ai due figli dello zio Gino, divenuti orfani di padre così presto.
Ado quel giorno, dunque, mi disse che il nonno Peppino, quando si erano conosciuti, gli aveva parlato dei suoi mesi sulla Bainsizza, della grande battaglia e della fuga – così la chiamò Ado, non la chiamò “ritirata” – dopo la rotta di Caporetto nell’ottobre del 1917.
Ado mi mostrò sulla grande mappa incorniciata appesa nel salotto del pianoforte dove fosse la Bainsizza e mi mostrò anche il corso dell’Isonzo, risalendo, con il dito che sfiorava il vetro, fino a Kobarid, così si chiama oggi Caporetto, mi disse. Così mi sembrò tutto più chiaro, vidi la distanza dalla Bainsizza al Piave e soprattutto compresi, o meglio, intuii cosa ci fosse dietro la commozione e il turbamento del nonno quel giorno in auto quando udii per la prima volta la parola Bainsizza.
Ado si offrì di accompagnarmi con la sua auto fino all’altopiano, che, disse, dista poco più di 60 chilometri; se vuoi possiamo andarci domani – aggiunse. Così, quasi senza che ci avessi pensato, piombai in poche ore dentro uno dei luoghi dove il nonno aveva combattuto ma del quale non parlava quasi mai, o almeno così ho imparato in questi anni, anche chiedendo alle zie e a mia mamma, che infatti lo ricordano sempre “commuoversi per il Piave”.
La Bainsizza è un altopiano collinare, si sviluppa a circa 600 metri di altitudine sul livello del mare ed è quasi tutto nel comune di Nova Gorica, la parte di Gorizia cresciuta dopo la seconda guerra mondiale in territorio jugoslavo e punteggiata di edifici tipici degli anni ‘50 e ‘60 dei paesi socialisti, condomini pieni di piccoli appartamenti e infilate di palazzine commerciali con al piano terra negozi che allora, negli anni ‘70, avevano un aspetto polveroso e sbiadito che conferiva alla merce esposta una singolare aura proveniente già dal passato, un passato recente ma sconosciuto per noi.
Arrivammo sulla Bainsizza in un pomeriggio fresco e ventilato, con il cielo azzurro. Sul Carso, mi disse Ado, il caldo è a volte fastidioso come quello di Milano, ma qui siamo più in alto e ci sono i monti vicini, e poi arriva sempre un po’ di vento, prima o poi nella giornata, e spinge le nuvole verso il mare. Lasciata la macchina su una stradina secondaria, appena fuori dalla strada principale che arriva da Nova Gorica, camminammo in silenzio su una strada bianca e svoltammo poi in un sentiero. Intorno solo prati e qualche cascina e colline dolci e ondulate. Ado non disse quasi nient’altro, disse solo che quella che viene chiamata la Battaglia della Bainsizza viene rubricata dagli storici come “undicesima battaglia dell’Isonzo”. Fu uno dei tanti massacri per le truppe italiane e austroungariche di quella terribile guerra qui sull’Isonzo, dove la strategia di Cadorna, fondata su gigantesche offensive su un fronte molto ampio, sotto il fuoco serrato dei nidi di mitragliatrice dell’esercito imperiale, ripetuta per più e più volte, provocò decine di migliaia di morti.
Il nonno – aggiunse Ado – mi ha detto che era un artigliere e che, quindi, stava più defilato e in posizione un po’ arretrata rispetto ai fanti, tanto è vero, aggiunse, che il tasso di mortalità degli artiglieri sul fronte dell’Isonzo era forse un terzo rispetto a quello della fanteria. Ado poi tacque, scrutando a lungo il terreno intorno.
Il nonno Peppino, scoprii più tardi, venne chiamato dall’esercito regio nelle prime settimane del 1917, probabilmente in febbraio. L’undicesima battaglia cominciò in agosto, giusto in tempo per l’addestramento e il trasferimento verso est, con le tradotte che portavano gli uomini, fanti e artiglieri, e le salmerie, e che seguivano i treni con i cannoni nuovi e le munizioni per quello che nel quartier generale di Cadorna veniva immaginato come l’assalto risolutivo della guerra. I libri di storia degli ultimi anni definiscono la Battaglia della Bainsizza come “una vittoria tecnica che sapeva di sconfitta”, perché la “Bainsizza si rivelò più un cul-de-sac che una via di accesso”. Nella battaglia l’esercito italiano perse 166mila uomini, 40mila dei quali morti, 25mila solo nell’attacco al monte San Gabriele, il principale ostacolo fra la Bainsizza appena conquistata durante la battaglia e la parte più lontana di Carso. “Se gli italiani fossero riusciti a conquistarlo – scrive Mark Thompson – avrebbero ben presto costretto alla resa i rimanenti capisaldi austriaci a nord della valle del Vipacco, si sarebbero aperti la strada verso Lubiana e avrebbero aggirato l’Ermada. Per converso, se gli austriaci avessero resistito, anche l’avanzata italiana sulla Bainsizza avrebbe avuto scarsa rilevanza”. Gli austoungarici resistettero e per gli italiani l’enorme sforzo si dimostrò inutile. L’offensiva venne fermata da Cadorna il 19 settembre e poco più di un mese dopo l’esercito austriaco, con il sostegno decisivo di reparti tedeschi sfondò più a nord, dando il via al disastro di Caporetto e alla grande ritirata.
Nella memoria del nonno Peppino questi suoi primi mesi intensissimi di guerra, con il martellamento gigantesco dell’artiglieria sulle linee austriache, dovevano essere scavati a fondo; eppure non disse a nessuno, salvo, parzialmente a Ado e a qualche vecchio commilitone, e credo, a qualche amico, quel che pensava, e le emozioni, il dolore per i compagni morti e feriti gravemente. Soprattutto, ancora oggi mi chiedo cosa avesse pensato e cosa si aspettasse durante la lunga ritirata, lo stato d’animo della sconfitta in quei giorni inondati dalla pioggia e segnati dalle voci del tradimento, con i civili che riempivano le strade ostacolando i movimenti verso ovest delle truppe italiane.
Nell’estate del 1985, con un cugino di Pittsburgh, Victor, e con mia mamma, andai per una breve vacanza a Trieste, Gorizia e a nord, lungo la valle dell’Isonzo, in territorio jugoslavo, fino a Kobarid, dove visitammo il monumento italiano che ricorda i soldati morti in quel settore del fronte a seguito dell’offensiva austro-tedesca. Il nonno era morto nove anni prima e mentre in autostrada ci avvicinavamo a Gorizia, mamma chiese di fermarci al grande cimitero di Guerra, “l’Ossario”, di Redipuglia. Gigantesco monumento alla morte e alla retorica patriottica fascista, divenne negli anni ‘30 il luogo dove celebrare la memoria dei “caduti” della Grande Guerra della quale si era appropriato il regime.
Mentre guidavo per gli ultimi chilometri prima di uscire dall’autostrada verso Redipuglia, mamma mi ricordò quando, a metà degli anni ‘60, era forse il 1964 – disse mamma – andammo, papà, io e te, da queste parti sulle tracce della guerra con il nonno e Piero, che allora aveva 15 o 16 anni. Quando superammo il Piave, vicino a San Donà – spiegò mamma – ci fermammo in riva al fiume e il nonno volle scendere fino al corso d’acqua, in un punto dove il greto è molto largo.
Camminammo sulle pietre avvicinandoci all’acqua. Da allora – aggiunse mamma – è rimasto nelle storie di famiglia quel che avvenne all’improvviso: Piero, che danzava e saltava da un masso all’altro dentro il corso del Piave, inciampò o forse scivolò e cadde pesantemente in acqua. Ricordo papà che, un po’ preoccupato e un po’ divertito – aggiunse mamma – si avvicinò a soccorrere Piero, fradicio che tratteneva a stento lacrime di rabbia perché attorno a lui, in quell’ansa del fiume, c’erano alcune famiglie che prendevano il sole estivo e ridevano di gusto per quello spettacolo. Io – disse ancora mia mamma – chiamai allora Piero, ero spaventata e preoccupata e alzando la voce vidi che il nonno si riscosse da un pensiero assorto che lo aveva preso e che poi ci raccontò brevemente rievocando il passaggio del Piave alla fine di ottobre del 1918, con i carri e i muli che tiravano e trasportavano i pezzi d’artiglieria per quelli che, come si sarebbe in seguito capito, erano gli ultimi giorni di guerra.
Quella volta – continuò a raccontare mamma – dopo San Donà proseguimmo fino a Gorizia, della quale ogni tanto il nonno parlava con malinconia: “Così vicina – diceva – appena dietro la linea del fronte, ma per noi in prima linea così irraggiungibile quando stavamo sulla Bainsizza”. Non superammo il confine jugoslavo, nessuno di noi aveva il passaporto – disse ancora mamma – e la Jugoslavia sembrava a tutti noi un po’ misteriosa e singolarmente lontana, anche se distava poche decine di metri. Andammo invece a Redipuglia, continuò mamma. Il nonno passò ore a camminare lungo le file di nomi su quella spianata in discesa coperta di marmo. Alla fine della giornata – aggiunse infine mamma – non disse più nulla, a parte nominare a bassa voce qualche commilitone caduto del suo reggimento, dei quali aveva cercato i nomi, lungo la scalinata di Redipuglia.
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