William H. Johnson, Going to Church, 1941

La lettera per Adam

Materiali autobiografici da e per Anghiari. Le estati del 1977 e 1978: la prima con una motocicletta Gilera del '58 e la seconda alla ricerca di un amico anarchico scozzese, mai ritrovato

Intorno era il vociare di molti ragazzi e alcuni adulti in varie lingue e il fumo delle sigarette e anche l’odore lieve e dolciastro della marijuana che arrivava fino alla terrazza del bar da qualche tenda piantata sulla collina più vicina. Come ogni sera, il negozio del campeggio era pieno di persone in pantaloncini o jeans e magliette colorate che compravano il pane, la carne inscatolata, le uova e le bottiglie di birra o di vino. In fondo alla terrazza un gruppo di ragazzi cantava melodie che, mi sembrava, chiunque fosse lì, conosceva. In sere come quelle, dal pendio sotto il Piazzale Michelangelo, la città sembrava un universo magico. E questo luogo, questo terrazzo – pensai – è uno dei centri del mondo. Poi mi ridestai come da un sogno a occhi aperti e mi incamminai sulla carrozzabile che tagliava il campeggio scendendo in ampi tornanti dai quali si raggiungevano le piazzole dove erano le tende. Scesi a cercare Fabrizio.

Cercai Fabrizio alla nostra tenda. L’avevamo montata nell’area più lontana dall’ingresso del campeggio, nel prato che guardava verso il centro di Firenze. Avvicinandomi temetti di non vedere parcheggiata la moto. Temevo che Fabrizio se ne fosse andato da solo in città con la Gilera Giubileo. Forse a cercare qualcuno da conoscere. Oppure da una misteriosa fidanzata.

La Gilera Giubileo Fabrizio l’aveva comprata dallo zio Pierino, il fratello della nonna Maria, quello zio che veniva le mattine a casa e ci raccontava le storie. Aveva ceduto la sua moto perché l’età avanzata (allora la sua età mi era parsa molto avanzata) e soprattutto una malattia, la malattia di Buerger, una malattia vascolare che colpisce le arterie, gli impediva di continuare a fare gli sforzi necessari con le gambe per sostenere e guidare la moto. Ce lo disse una mattina che venne a casa e chiese se non conoscessimo qualcuno interessato alla sua bellissima Gilera. Di quella Gilera avevo parlato più volte a Fabrizio e quando gli dissi che lo zio aveva intenzione di liberarsene e che cercava soprattutto qualcuno che se ne prendesse cura più che qualcuno al quale spillare dei soldi, Fabrizio mi disse che sì l’avrebbe comprata lui, con i risparmi del salario che guadagnava nell’officina di riparazione delle macchine agricole nella quale lavorava da poco più di un anno. E così fece. E la Gilera Giubileo fu la nostra moto in quel viaggio. Ne conservo una foto, naturalmente in bianco e nero, quadrata, scattata con la Rolleiflex che mi aveva regalato lo zio Alfredo. Nella foto la Gilera ha ancora il tubo di scarico originale – si sarebbe rotto durante il viaggio e venne sostituito da un meccanico di Civitavecchia con un tubo recuperato in un rottamaio –  e sul portapacchi è fissato da due cinture e una corda il grande zaino verde, sul quale il passeggero poteva appoggiarsi durante la corsa.

La Gilera, vidi con sollievo, era lì appena dietro la tenda, vicinissima alla rete che delimitava il campeggio. Era dove l’avevamo lasciata dopo aver spento il motore, quando eravamo finalmente arrivati. Di nuovo al campeggio di Firenze, per gli ultimi giorni di quella vacanza, di quel viaggio. Era l’estate del 1977.

La moto stava accanto alla tenda, questa nostra tenda, pensai, è davvero bella, blu e arancione, illuminata di lato dal lampione che restava acceso fino a tardi. Conoscevo quel campeggio in ogni sua parte, era la quarta o quinta volta che ci si veniva e decisi che avrei continuato a cercare Fabrizio in qualche angolo protetto, discosto. Ripassai prima dal terrazzo del bar e ripresi il quaderno che avevo lasciato aperto, per tenere occupato il tavolo. Pensai che sarebbe stato inutile, non avremmo passato quella sera un paio d’ore parlando e scrivendo a Adam come avevamo progettato di fare Fabrizio ed io. Ora dovevo ritrovare il mio amico e se non gli fosse capitato nulla di serio, pensai, gli avrei tenuto il muso. Perché mi piaceva tanto stare qualche ora su quel terrazzo ma così quella sera non avrei potuto farlo. Prima di tenergli il muso avrei dovuto accertarmi che stesse bene.

Camminai ancora una decina di minuti per controllare le parti più nascoste del campeggio. Poi finalmente lo vidi. Quasi dove il campeggio finiva, dal lato verso il piazzale Michelangelo, sotto il grande spiazzo posato sulla collina. Una piega del terreno, mi resi conto solo avvicinandomi, nascondeva le ultime tende da quella parte. Fabrizio era in una piazzola vuota, si notava anche al buio la chiazza regolare ingiallita di erba che aveva ospitato una tenda per qualche giorno, la tenda doveva essere stata smontata quella stessa mattina, pensai. Fabrizio stava seduto con le gambe raccolte sotto le ginocchia, nella posizione del Budda. Pensai proprio al Budda e alla pratica della meditazione della quale Fabrizio mi aveva spiegato alcuni mesi prima alcune tecniche e della quale mi aveva parlato alcune volte anche durante il viaggio.

Per non disturbarlo mi fermai prima che potesse vedermi e mi sedetti a osservare il campeggio che lentamente in un brusio felice si avviava al sonno. Le voci della terrazza del bar da lì si udivano ovattate, ormai le conoscevo bene, e pensai che quel suono fosse uno degli accompagnamenti più sereni che conoscessi per addormentarsi.

Trascorse poco meno di un’ora e quando mi ridestai da un torpore piacevole e felice, vidi che Fabrizio si stava stirando le braccia e si preparava ad alzarsi dalla sua posizione di meditazione. Mi rimisi in piedi e camminai verso di lui.

Pensavo te ne fossi andato giù a Firenze – gli dissi – quando ho visto che eri sparito dal bar. Poi per fortuna ti ho trovato qui. Ho preferito lasciarti solo mentre meditavi. Ero qui vicino e mi sono quasi addormentato. 

Torniamo al bar dai, se ti va, torniamo a scrivere a Adam – mi disse Fabrizio.

Adam era un ragazzo scozzese che avevamo incontrato a Firenze, a Siena e poi di nuovo a Gubbio. A Siena mangiammo con lui in piazza del Campo una notte così chiara che la luce della luna sulla torre ci fece cantare, e chi di noi non sapeva le parole seguiva suonando con la voce. A Gubbio invece pioveva forte. Il campeggio più vicino era fuori città, lontano e l’acquazzone torrenziale. Decidemmo di fermarci sotto un porticato a dormire, in una via un po’ discosta. Mentre si cenava con i resti del pane e mortadella che avevamo comprato per il pranzo, era arrivato Adam in cerca di un rifugio per la notte. Ci chiese del campeggio, senza convenevoli o saluti, come se fosse scontato che ci saremmo incontrati di nuovo, e decise di restare lì con noi la notte. Sistemammo i sacchi a pelo uno dietro l’altro, paralleli al muro dei negozi sotto il porticato, in modo che fossimo completamente all’asciutto. Ci sdraiammo, stanchi e inumiditi, e un po’ affamati, quando ancora non erano le undici di quella notte.

Nessuno di noi dormiva. Provammo dunque a raccontarci alcuni momenti della nostra vita. In inglese, anche se ogni tanto Adam diceva qualche parola in italiano e parecchie in spagnolo. La Gilera ingombrava l’angolo vicino del porticato e mandava, quando una folata di vento tirava dalla nostra parte, mandava verso di noi l’odore acre dell’olio bruciato. Adam a Gubbio ci raccontò con orgoglio di essere un anarchico. Un anarchico che aveva vissuto un anno in Spagna con gli anarchici della Fai, la Federación Anarquista Ibérica. La Spagna si era liberata di Franco da meno di due anni e Adam dalla Scozia si era trasferito in Spagna e aveva vissuto per più di dieci mesi in una comune anarchica vicino a Valencia. Dopo questo giro in Italia – ci spiegò mentre sorseggiava l’unica lattina di birra che avevamo, là sotto il porticato, e che ci stavamo dividendo dopo averla aperta quando i racconti si erano fatti intensi e avevamo allontanato il sonno – dopo questo giro tornerò in Scozia e ricomincerò l’Università. Adam aveva capelli arruffati e una barba incolta e lunga, vestiva pesanti scarponi che, notai, ora che se li era tolti teneva vicinissimo al sacco a pelo, vicinissimo a dove teneva la testa quando era sdraiato. Adam viaggiava con uno zaino piccolo, di tela verde con inserti di cuoio, e due tasche laterali; di giorno teneva il sacco a pelo fissato con due pezzi di spago e protetto da un telo impermeabile, e la piccola tenda, che proteggeva in un sacco di iuta, era infilata sotto la patella. Il racconto della vita nella comune della Fai mi aveva affascinato quella notte a Gubbio, con la pioggia che scrosciava sull’acciottolato della strada e i lampi del temporale che illuminavano il cielo nero di nuvoloni in lontananza. La vita quella notte mi sembrò piena di possibilità e anche l’idea di una società equa e amichevole come una comune anarchica mi suonò come davvero alla portata della nostra generazione.

Al campeggio di Firenze, la sera in cui Fabrizio meditò, in una delle ultime notti di quella vacanza meravigliosa che ancora oggi, a distanza di oltre 40 anni, ricordo con gioia e commozione, Fabrizio ed io avevamo deciso di scrivere una lettera a Adam. L’avremmo spedita al suo indirizzo di Dundee, l’indirizzo della casa dei suoi genitori dove sarebbe tornato ad abitare nelle settimane che rimanevano prima dell’inizio dell’Università che avrebbe frequentato a Edimburgo, dove contava di abitare con un gruppo di studenti. Quando però trovai Fabrizio seduto e rilassato alla fine di quella misteriosa fuga per meditare – della quale non mi parlò mai, anche se fu certo oggetto di lazzi e ipotesi di fantasia quando tornammo a casa, ma Fabrizio non disse mai nulla di precipuo – quando insomma tornammo al tavolo del bar del campeggio non ci risolvemmo a scrivere quella lettera a Adam.

Fu una specie di tranquilla malinconia che ci prese per mano e ci portò con se per un po’. Comprammo altre due birre e restammo in silenzio, osservando le ragazze che ancora erano sul terrazzo. Mi mancavano le ragazze, le desideravo ma mi sembravano lontane, mi sembravano appartenere a mondi misteriosi, dove si usavano linguaggi che non sapevo sempre decifrare, e che comprendevo solo in alcuni momenti.

Così a Adam scrissi una lettera solo un anno dopo, la scrissi da solo, senza Fabrizio. Nella lettera a Adam cercai di spiegare che insieme ad altri amici, questa volta Fabrizio non ci sarebbe stato, sarei andato in Francia e poi a Londra e poi saremmo andati, in autostop, fino in Scozia, a Edimburgo, e poi a nord nelle Highland, fermandoci un po’ a Inverness e sul Loch Ness e aggiunsi che mi avrebbe fatto molto piacere vederlo. Potevo puntare su Dundee, a un certo momento del viaggio, mi dicesse lui quando ci si poteva incontrare. Dundee non è lontana da Edimburgo, si sarebbe potuto arrangiare un incontro?

Gli inviai la lettera in giugno del 1978, Adam però non rispose. Pazienza, pensai prima di partire, non andremo a Dundee, staremo un paio di giorni in più altrove. 

Ripensai ad Adam quando ci trovammo sul grande tappeto del salotto della coppia di ex hippies di Glasgow che ci  ospitò per una notte, dopo che ci videro fare l’autostop in un viale vicino a casa loro. Erano ex hippies, pensai io, diventati filantropi o qualcosa del genere, come potemmo ricostruire interpretando ciò che ci dissero, osservando le fotografie che avevano un po’ ovunque in casa, giocando con i tre cani che trotterellavano fra il giardino e il salotto e con alcuni dei gatti che ci ignorarono; e cercando indizi nelle immagini dei figli che ci guardavano schierate dalla cassapanca del grande salotto con l’enorme finestra che guardava a occidente. In questo salotto ci sistemammo per la notte con i sacchi a pelo sui tappeti colorati dopo la cena che ci offrirono, a base di cereali, latte, cioccolata e una grande torta. Finimmo di cenare che era ancora il crepuscolo, i due ex hippies ci salutarono e ci lasciarono, noi cinque amici in viaggio a riposare nel loro grande salotto chiaro e colorato dalla grande finestra che mostrava il tramonto. Così, al crepuscolo, mentre scendeva la notte su Glasgow e la sua periferia, raccontai ai miei amici, Silvana, Orazio, Pietro e Ambrogio, raccontai di Adam l’anarchico. Adam – dissi – lo abbiamo incontrato alcune volte, io e il mio amico Fabrizio la scorsa estate, nel nostro viaggio in moto. Te ne ho parlato, ricordi Ambrogio? Te ne ho parlato perché quel viaggio mi aveva suggerito pensieri che mi hanno portato a questo nostro viaggio, questo viaggio che stiamo facendo noi cinque e che si sta per concludere. Adam – continuai, cercando di capire se ai miei amici interessasse sapere davvero chi fosse Adam – lo incontrammo la prima volta a Firenze. Aveva i capelli arruffati e uno zaino che mi sembrò piccolo. Aveva piantato la sua tendina in un giardinetto appena sotto Piazzale Michelangelo, vicino al campeggio. Ci disse, in un inglese che ora ho imparato a riconoscere come inglese degli scozzesi, e che allora mi sembrò simile a un certo inglese che avevo ascoltato in America, disse che anche se aveva la tenda in quel giardinetto usava abitualmente i bagni del campeggio, ci si faceva la doccia anche, nessuno mi nota, nessuno fa caso a me. E compro anche del cibo,  I grab some food, certe volte, nel negozio del campeggio – ci spiegò Adam – e sì, mi fermo anche lì su uno dei tavoli verdi a mangiare. Ho anche conosciuto – aggiunse Adam, spiegai ai miei amici, ai miei quattro amici a Glasgow – alcune ragazze, forse disse couple of girls, abbiamo anche mangiato insieme e una sera, disse Adam, che una di loro lo aveva anche invitato nella sua tenda. Passai alcune ore nella sua tenda – spiegò Adam senza mutare espressione, mentre sorseggiava l’immancabile birra – poi non la vidi più; le due amiche sparirono. Insomma – dissi io in quel salone della casa di Glasgow – questo Adam era un tipo forte, Fabrizio ed io passammo con lui delle ore proprio belle, divertenti, ci parlava delle Highland della Scozia, dei minatori del Galles, del partito comunista britannico troppo amico degli stalinisti, dei trotzkisti che non sapevano decidersi. E ci parlò, naturalmente degli anarchici. Ci parlò a lungo degli anarchici, appena lo conoscemmo, e poi ogni volta che lo incontrammo. Aveva incontrato l’anarchia vera in Spagna – dissi ai miei compagni di viaggio a Glasgow – se vi interessa vi racconto.

Stava calando la notte ma nessuno di noi sembrava assonnato e mi dissero di continuare a parlare di Adam, anche se Adam, che avrei voluto andare a trovare a Dundee, non mi aveva nemmeno risposto alla lettera, o forse aveva soltanto risposto troppo tardi. Ma non saremmo certo andati, avevo deciso, non saremmo certo andati a cercarlo in un posto come Dundee senza sapere se lui fosse lì e comunque ormai eravamo stanchi di girare, eravamo in viaggio da più di un mese e se anche lui fosse stato a Dundee forse ci fossimo presentati in cinque non ci avrebbe nemmeno fatto delle domande e io già allora avevo l’idea che se le persone non ti fanno qualche domanda non sono interessate a te e quindi decisi di lasciare perdere Adam. Per andare a Dundee avremmo dovuto lasciare anzitempo il Loch Ness dove eravamo stati così bene in quel campeggio vicino all’Urquhart Castle. In quel campeggio che di un campeggio aveva solo una sorta di baracca con due toilette e una doccia con l’acqua scaldata da un boiler.  Io e i miei quatto amici di quel viaggio di più d’un mese in autostop, treno e autobus per la Francia, l’Inghilterra e la Scozia, nel campeggio fra Lewiston e i ruderi del castello passammo quattro giorni indimenticabili, quasi tutti sotto la pioggia battente del precoce autunno scozzese. Stavamo sdraiati nelle nostre tende, montate una di fronte all’altra in modo che le due minuscole verande riparassero un po’ lo spazio davanti agli ingressi. La mattina arrivava un camioncino bianco che restava a lungo parcheggiato davanti al campeggio, che non aveva recinzioni. Compravamo latte, uova, il pane e le patatine. Quando spioveva si scendeva verso la riva del lago dove stavano le rovine del grande castello. A sera, invece, andavamo tutti e cinque al pub di Lewiston, a dieci minuti di cammino dal campeggio; ci andammo anche nei giorni di pioggia, con le mantelle. Fu lì, nel Loch Ness Inn che Orazio una sera superò se stesso e ovviamente tutti noi, meravigliando anche gli avventori del posto, bevendosi cinque pinte accompagnate da tre o quattro shots di whiskey. Nessuno di noi provò nemmeno a insidiare il primato di Orazio. Se ricordo bene, quella sera io bevvi tre pinte. Eravamo felici mentre la notte tornavamo al campeggio. Una sera ricordo che organizzammo uno stupido scherzo a Silvana. Due di noi rallentarono il passo in modo che lei non ci vedesse più. Gli altri due invece erano andati avanti con la scusa di trovare un luogo discosto dalla strada per fare pipì. Proprio all’ingresso del sentiero che deviava dalla carrozzabile e arrivava al campeggio, si nascosero dietro un muretto. Per un minuto o due Silvana rimase sola fra la strada che scendeva al lago e il sentiero che conduceva al campeggio; il cielo era blu profondo ma solcato da nuvole bianche. Silvana fino a quel momento silenziosa e forse soprapensiero, si voltò improvvisamente e chiamò, stronzi dove siete finiti, stronzi, mi fate spaventare, si arrestò, poi, voltandosi accelerò il passo, convinta che qualcuno di noi fosse avanti. Giunta al muretto due di noi balzarono sulla strada urlando, e provocandole uno spavento brutale che la fece piangere e ci ammutolì tutti, sia i due che erano nascosti dietro il muretto, sia i due che si erano fermati dietro. Fu subito chiaro a tutti e quattro che non era stata una buona idea. Silvana piangeva. Ci sentimmo a lungo degli imbecilli. E ancora oggi, non me la sento di dire chi rimase indietro e chi la fece materialmente spaventare così tanto. Silvana però era un’anima candida e il giorno dopo riprese a ridere della sua grande e affettuosa risata.

Ripensai a quei momenti e allo stupido vigliacco spavento che le procurammo, alcuni anni dopo, quando, insieme a Roberto, che però non era con noi quella notte al Loch Ness, andai a visitare Silvana nel reparto psichiatrico di un ospedale dove venne ricoverata. Non che le due cose fossero in qualche modo collegate ovviamente, almeno per quanto ne sapessi io e per quanto potessi immaginare. Solo che ci pensai, associai il letto di Silvana nell’ospedale psichiatrico a quella sera sul Loch Ness, solo per un momento, ci pensai senza cercare nessi o alcunché.

Al Loch Ness in quei giorni di pioggia fummo così felici e liberi da ogni assillo o fretta e pressione, che non ho mai dimenticato il tempo vuoto ma gioioso e ricco di parole affettuose di quel campeggio verdissimo vicino al lago. Nel 2017 Anna ed io andammo a Inverness e sul Loch Ness perché partecipai alla maratona che ogni anno si corre proprio sulle rive del lago, partendo e arrivando a Inverness. Ebbene, il giorno prima  della corsa tornai all’Urquhart Castle e al vecchio campeggio, luoghi “di culto”, dissi a Anna, vorrei che tu li vedessi. Trovai il castello quasi immutato, a parte l’edificio dei bagni e delle docce, ora più grande e in muratura. Il castello invece è diventato una vera attrazione turistica, con un grande parcheggio, il visitor centre, le guide multilingua, il bookshop, i pannelli con il racconto e le spiegazioni del passato medievale scozzese. Nel 1978 era un rudere lasciato quasi a se stesso, con l’erba fra le mura, senza indicazioni, a parte una placca di bronzo e, almeno per i giorni che passammo lì, frequentato solo da qualche turista in auto che si fermava a scattare delle foto al rudere e a guardare il lago dal castello.

Insomma, avevo deciso di non andare a cercare Adam, restammo al campeggio vicino al castello. Ma quella sera nel salotto degli ex hippies di Glasgow, a inizio settembre del 1978, con i miei amici che ascoltavano, portai un po’ di Adam nella grande stanza dove avevamo assistito all’arrivo della notte. Dai – disse ancora Silvana – raccontaci un po’ di questo Adam.

Dopo il primo incontro all’inizio del viaggio, a Firenze – dissi allora io – prima di arrivare a Roma dalla costa tirrenica, lungo la via Aurelia – continuai, divagando un po’ perché allora avevo urgenza di dire tante coese, parlavo poco di solito, però con gli amici mi lasciavo andare e in alcuni giorni finivo davvero per dire molte molte cose, soprattutto, senza pensarci in modo specifico, in modo inconsapevole, in quei mesi, attorno ai 18 anni, imparai la forza fantastica e dolce della digressione. Comunque sia – dissi – quel viaggio della scorsa estate cominciò a Firenze e finì, tre settimane dopo, ancora a Firenze, ancora nel campeggio di Piazzale Michelangelo che conoscete anche voi. Silvana lo conosce, ma anche Ambrogio, vero? Insomma, dopo il primo incontro con Adam, dopo un pomeriggio e una sera ci separammo. Lo avremmo ritrovato quattro o cinque giorni dopo a Siena e poi ancora dopo qualche giorno, a Gubbio – dissi ai miei quattro amici – poi se volete vi racconto anche questo. Quel primo incontro venne riempito – continuai – soprattutto da Adam che ci raccontava dell’anarchia. Aveva trascorso due mesi in Spagna in una comune vicino a Valencia, tra Valencia e Barcellona; Adam – continuai dopo una breve pausa per aprire un paio di lattine di birra che ci passammo stando a gambe incrociate sui sacchi a pelo stesi sui tappeti colorati a patchwork del grande salotto con la vetrata orientata a ovest. Sapevamo che il nostro viaggio stava finendo. Il giorno dopo saremmo partiti in autostop verso sud, verso Londra e poi Dover, il traghetto e poi Parigi e poi l’Italia; ci saremmo separati per rendere più semplice l’autostop: due e due e, insomma, uno di noi avrebbe viaggiato da solo. Silvana ci chiese di non andare sola da Glasgow a Milano: quindi a uno di noi quattro ragazzi sarebbe toccato il viaggio solitario. Avevamo stabilito di tirare a sorte, lo avremmo fatto la mattina a colazione. Eppure, mentre sorseggiavo la birra, mentre gioivo ricordando l’avventura anarchica di Adam, mentre sentivo il desiderio di continuare a parlare di Adam e della sua storia e delle storie degli anarchici a quei ragazzi ai quali volevo così tanto bene, almeno così mi sentii quella notte anche se poi, per la verità, nel giro di qualche anno li persi, non li vidi più, tranne ogni tanto, due di loro, che erano con me in quel salotto di due coniugi ex hippies scozzesi; ecco, proprio in quell’euforia sentii che sarebbe stato un gesto coraggioso e una bella avventura tornare a casa da solo. Un momento – dissi – ho deciso, niente estrazione a sorte: parto io da solo. Voi decidete come combinarvi, oppure estraete a sorte; ma io parto da solo. Mi guardarono tutti e quattro stupiti. Silvana rise di una grande risata. Di quelle risate alle quali ci aveva abituati la sera delle domeniche, quando con Fabrizio e Roberto si andava in auto, con l’auto di Fabrizio, a prenderla a Limbiate.

Restavamo a casa sua un’ora o poco più, a chiacchierare con la sorella e la madre, Silvana aveva perso il padre quando era piccola, e a bere il caffè con la cremina che Silvana amava preparare, aggiungendo molto zucchero alle prime gocce che salivano nella moka e le girava con un piccolo cucchiaio e poi le versava nelle tazzine, sopra il resto del caffè. Poi uscivamo noi quattro e andavamo in città al Bar Magenta o al Tombon de San Marc, oppure al Bar Cavour in Corso Magenta, uno dei pochi bar di Milano dove verso la fine degli anni settanta si beveva la Guinnes. Sì, in quelle lunghe sere di domenica, Silvana rideva spesso e a lungo, interrompeva le discussioni, o il flusso regolare delle cose di cui parlavamo. Si discorreva anche della politica, delle Brigate Rosse e di Aldo Moro o dei magistrati uccisi per strada e dei progetti di vita, ma anche di piccoli minuti commenti su amici o compagni di scuola, oppure delle idee di Fabrizio per lasciare il lavoro. Fabrizio guidava la sua 124 bianca che aveva comprato usata con l’aiuto di sua nonna paterna, una donna autoritaria che alzava la voce in casa e che desiderava che il nipote la accompagnasse qua e là. E quella sera a Glasgow, quando dissi che sarei andato io a fare il viaggio da solo, Silvana rise proprio con una di quelle sue lunghe risate, la notai solo io e mi ricordò quelle sere con Fabrizio e Roberto che non erano lì con noi in quel salotto. Forse mi sembrò la stessa risata anche quando la udii di nuovo alcuni dopo, forse tre anni, o due, quando Roberto ed io andammo a vedere Silvana, a parlarle senza avere risposte, nel reparto psichiatrico ancora aperto a Mombello, un paio di anni dopo la legge Basaglia, la stessa risata che fece più e più volte, seduta su quel letto dove disse parole insensate e offensive e sconce, piene di espliciti riferimenti sessuali che quando escono da un malato psichiatrico tanto ci mettono a disagio, forse perché non possiamo riderne. 

Quella sera a Glasgow, dopo aver dichiarato che avrei viaggiato da solo verso Milano, dopo la risata quasi nervosa e per me inspiegabile di Silvana e il mio imbarazzo, ricominciai, forse per frantumare il gelo sceso fra noi, a raccontare di Adam. Parlavo, con il dubbio che ormai nessuno dei mei amici fosse più interessato a quella storia; pensavo che forse si limitassero a sentirmi dire delle cose su un ragazzo lontano, che ormai stava sparendo nell’ombra di vite che si separavano dalla sua e di altre vite che non si sarebbero mai incrociate. Io comunque andai avanti, mi pareva che in quel luogo di amicizia, sospeso fra il passato e il futuro, fosse mio diritto continuare a parlare, anche se forse ormai parlavo senza ascolto. Adam era arrivato – dissi – in quella comune anarchica vicino a Valencia, dopo aver scritto ai compagni e ai fratelli una lettera nella quale spiegava che si era avvicinato alle idee degli anarchici spagnoli dopo un lungo percorso che era partito dalla lettura di George Orwell. Aveva letto Omaggio alla Catalogna, quel libro che è un po’ diario, un po’ reportage, un po’ memoir della sua esperienza dentro la guerra civile dalla parte dei repubblicani contro i franchisti, nelle brigate internazionali. Orwell aveva combattuto insieme ai militanti del Poum, il Partido Obrero de Unificación Marxista, un partito di ispirazione trotskista che nella guerra di Spagna affiancò gli anarchici, diventando presto – i militanti del Poum e gli anarchici –  il bersaglio di una guerra nella guerra condotta dagli stalinisti manovrati da Mosca, guerra intestina nella quale morirono migliaia di antifascisti, uccisi da altri antifascisti, come se no bastassero i franchisti a ucciderli, mi ha spiegato Adam – dissi.

Adam portava con sé un ritaglio di una rivista catalana militante, di circa un anno prima, settembre 1976. Sulla pagina una grande foto nella quale si vedeva un gruppo di persone in una fila disordinata davanti a un edificio: molti indossano uniformi militari confuse, combinate male, irriconoscibili, non coordinate; qualcuno ha anche gli stivali e altri il sacco a pelo o la coperta annodata sulla spalla. I primi della fila osservano il fotografo e mostrano una bandiera del Poum con la falce e il martello. Secondo la didascalia, uno dei combattenti nelle ultimissime file è George Orwell. Adam aveva tracciato, con grande cura, con un pennarello, una freccia rossa sopra la testa di quest’uomo molto alto che indossa un basco calzato in modo che la fronte ampia sia scoperta e ben visibile. Come per Orwell in Omaggio alla Catalogna, se non ricordo male, anche per Adam la simpatia andava più agli anarchici che ai trotskisti del Poum. Adam diceva che gli anarchici spagnoli erano eroi della libertà e raccontò che la recente morte di Franco e la democratizzazione del paese avevano finalmente permesso agli anarchici di uscire allo scoperto. Restava l’amarezza, disse, perché ancora non tutti i rivoluzionari e i partiti di sinistra riconoscevano agli anarchici spagnoli e agli anarchici arrivati in Spagna per aiutare la Repubblica, non tutti, insomma, riconoscevano il loro ruolo fondamentale.

Quindi Adam – dissi ai miei amici, anche se mi pareva davvero si fossero addormentati tutti, sì continuai, come se parlare a quattro ragazzi addormentati ai quali volevo molto bene mi aiutasse a sentirli vicini, a colmare quei vuoti che da svegli, pensavo, a volte ci separano – Adam, proprio nei mesi in cui la Spagna poteva finalmente avviarsi alla democrazia si convinse di dover andare là a scoprire gli anarchici. Scoprì il Fai. Ogni tanto, durante le nostre conversazioni urlava slogan del Fai o pronunciava in spagnolo per esteso “Federacion Anarquista International”. Adam ci raccontò dunque della Spagna – continuai parlando nella notte di Glasgow –  sia la prima notte a Firenze sia a Siena, sia soprattutto quando dormimmo sotto il porticato a Gubbio, mentre il cielo era squarciato dai lampi e i tuoni riempivano la notte. Sì in effetti Adam non lo incontrammo più dopo che ci salutammo quella mattina. Fabrizio lo accompagnò con la moto, con la Gilera rossa e bianca, alla stazione di Gubbio che in verità è piuttosto lontano da Gubbio. Quella mattina insomma, una splendida mattina con il cielo blu e nuvoloni bianchi ampi e rassicuranti, andammo al bar della piazzetta, giusto dietro il porticato dove avevamo trascorso la notte – dissi ai miei quattro amici nel salotto degli hippies di Glasgow, dissi che ci facemmo una colazione ricca e pasticciata, piena di cornetti dolci, di frolle con la marmellata e latte col caffè al bar della piazzetta e poi Adam ci disse che voleva tornare a Firenze dove lo aspettavano degli amici, my new friends, tedeschi o olandesi, non ricordo, che lo avrebbero accompagnato con il loro pulmino al nord, almeno fino a Calais o Dunkerque, poi si sarebbe arrangiato per arrivare a Londra, dove si sarebbe fermato qualche giorno da un cugino che guidava il taxi, poi si sarebbe spostato per tornare dai suoi a Dundee.

Ci chiese della stazione: aveva già il suo piccolo zaino in spalla, the railway station. Così tornai nel bar dove mi dissero che a Gubbio non arrivava il treno e che la linea per andare a Firenze era quella di Perugia e che per raggiungerla non si poteva fare altro che andare in auto o con la corriera fino a Perugia, che è a 40 chilometri. Oppure, disse uno dei signori seduto al tavolo a sfogliare un quotidiano, potreste andare a Fossato di Vico, lì passa la linea che va a Roma o, dall’altra parte, a Ancona. Fossato, disse il signore del giornale, è più vicino, meno di 20 chilometri. Lì si può prendere qualcosa per Perugia, forse un autobus. Sì insomma, potete cavarvela. Uscii e spiegai a Adam che non era così facile arrivare a Firenze. Si decise che Adam sarebbe andato a Fossato e che ce l’avrebbe portato Fabrizio con la Gilera Giubileo 98. Io, dissi, aspetterò qui a Gubbio, nella grande piazza lassù, leggerò Hesse e poi scriverò una lettera che non spedirò mai.

Ormai avevo abbassato la voce, lì nel salotto degli hippies. Ormai ero sicuro che nessuno ascoltasse più con attenzione tutti i dettagli; la stanza era illuminata da una sola lampada nell’angolo a est, le altre le avevamo spente via via. Silvana e Pietro dormivano, Ambrogio fissava il soffitto in silenzio e Orazio, girato su un fianco mi dava le spalle. Be’, dissi, domani sarà una giornata lunga, è meglio che mi metta a dormire. Fu a quel punto che Ambrogio si sollevò su un gomito e disse: quindi l’ultima volta che hai visto Adam fu quella mattina a Gubbio? Già dissi, l’ultima volta.

Così – disse allora Ambrogio – chissà se lo incontrerai ancora, Adam; ti spiace non essere andato a Dundee? Forse non ti ha risposto alla lettera solo perché non l’ha mai ricevuta. Forse saremmo dovuti andare a Dundee; chissà che posto è. Be’ – risposi io – ormai è andata così. Domani partiamo; proverò a scrivere ancora a Adam, magari tornerà lui in Italia.

Partimmo tutti da Glasgow il giorno dopo uno dei primi giorni di settembre del 1978. Io riuscii a trovare un passaggio quasi subito sull’auto di una signora avanti con gli anni che sulla sua Vauxhall mi accompagnò a una trentina di chilometri a sud di Glasgow. Poi aspettai a lungo. Forse quattro o cinque ore. Avevo dei biscotti con me e un paio dei sandwich che gli ex hippies ci avevano preparato per il viaggio. Quando ci salutammo, la signora ex hippy ci diede anche un bacio in fronte. In quel tratto di autostrada salii innumerevoli volte su un alto terrapieno coperto d’erba tagliata di fresco per scrutare la carreggiata che scendeva verso sud; salivo quando passavano alcuni minuti senza che arrivassero auto, ero in ansia, per la prima volta in quel viaggio. 

Verso le sei di quel pomeriggio si fermò una Ford blu guidata da un giovane uomo, forse sui 35 anni, che mi portò fino a Londra, mi invitò a dormire da lui sul divano. Mia moglie lavora sugli aerei, disse, stanotte non ci sarà; se ti basta il divano si può fare, aggiunse, e poi mi portò fuori a cena insieme a tre suoi amici. Andammo in un ristorante indiano di Soho. Quando parlavano tra loro in quell’inglese che, mi spiegò Ken, così disse di chiamarsi il mio ospite, parlavano in alcune parti di Londra e che si chiama cockney, non capivo proprio nulla. Ascoltavo i suoni e fantasticavo sulle loro vite e sulla mia. La mattina dopo, Ken mi accompagnò fino all’ingresso dell’autostrada dove presto un camion mi portò fino a Dover. 

Presi un traghetto nel pomeriggio dopo aver gironzolato senza idee su cosa fare e senza nessuna voglia di pensare ad altro tranne che ai giorni precedenti della vacanza. Fu così che quando il traghetto arrivò a Dunkerque chiesi passaggi per proseguire verso Parigi ad alcuni camionisti parcheggiati nel grande spiazzo davanti al porto, ma a quell’ora nessuno partiva più. Mi dissero di tornare la mattina che un passaggio l’avrei rimediato. 

Già, pensai, domani mattina. 

Così, col passare dei minuti e con il freddo e il crepuscolo che cadevano sul porto di Dunkerque e il vento del mare che aveva cominciato a soffiare, arrivai alla decisione di prendere il treno. Avevo ancora un po’ di soldi, avevamo speso meno del previsto per mangiare, per dormire e per viaggiare, soprattutto grazie ai passaggi in autostop con i quali ci eravamo mossi quasi sempre. Pensai anche, camminando verso la stazione di Dunkerque, che viaggiando in treno mi sarei riparato dal freddo, e arrivato a Parigi avrei atteso il giorno in stazione. Sollevato dalla decisione, in una giornata a lungo passata a evocare altri giorni e a lasciare che il tempo si muovesse piano piano, andai alla sala della biglietteria. Non c’era nemmeno un viaggiatore e un solo sportello era illuminato. Mi avvicinai e chiesi, in un francese stentato e con accenti bizzarri più che errati, un biglietto per Parigi. Il signore con gli occhiali, dai modi che mi sembrarono rudi, da uomo stanco, uno di quegli uomini che negli anni a venire avrei riconosciuto nei romanzi di Simenon, mi disse, prima in francese e poi lo ripetè in inglese, che non c’erano più treni per Parigi a quell’ora e che anzi lui stava per chiudere, la stazione di notte rimaneva chiusa. Torna domattina alle cinque, disse. Il treno parte alle cinque e mezza. Non ricordo esattamente cosa risposi. Forse provai a chiedere se potevo passare la notte lì nella stazione. Lui rispose che no, che lui doveva chiudere. Azzardai: con una faccia tosta che credo di non aver sfoggiato mai più dopo di allora, dicendo che non avevo soldi per andare in albergo, che i soldi mi servivano per tornare a casa in Italia, e che non sapevo dove passare la notte. 

L’uomo con gli occhiali allora mi disse, in francese, di aspettare. Chiuse la biglietteria, prese la sua bicicletta che, ricordo bene, aveva il carter completo a coprire la catena, assicurò la cartella di cuoio al portapacchi e mi disse di seguirlo. Scendemmo la scala che conduceva ai binari, lui sollevò di peso la bicicletta e la condusse sui gradini senza poggiare mai le ruote. Scendendo disse qualcosa in francese che cercai di interpretare fosse riferito al possibile furto della bicicletta se l’avesse lasciata sul piazzale incustodita. Arrivammo sulla banchina del primo binario. Accostò e poggiò la bicicletta al muro. E aprì una porta a vetri di una sala con grandi finestre e un soffitto alto, molto alto. 

Non accese le luci. Con la torcia che aveva tolta dalla cartella illuminò la sala con un rapido volteggiare del braccio. Vidi allora le panchine e capii che ci trovavamo nella sala d’attesa della stazione. Allora nel suo inglese pieno di accenti sbagliati e divertente, da personaggio di un film, mi disse che per il regolamento non sarei potuto restare ma che vista la mia condizione mi avrebbe permesso si dormire lì. Il sacco a pelo avrei dovuto stenderlo lungo la parete appena a destra della porta di ingresso della sala d’attesa, in modo che la guardia, quando fosse passata, illuminando dalla porta a vetri o da una finestra, non avrebbe potuto scorgermi. Mi disse di non fare rumore e che la mattina un suo collega avrebbe aperto la porta senza entrare. Io avrei aspettato qualche minuto e poi sarei potuto uscire. Mi scrisse poi su un biglietto il suo nome, Gerard, e il numero di telefono. Disse che se qualcosa nella notte fosse andato storto e mi fossi trovato in qualche guaio avrei dovuto dire che mi aveva fatto entrare Gerard e che lo chiamassero al telefono e che tutto si sarebbe sistemato. Prima di andarsene mi augurò la buona notte, in francese. Poi mi abbracciò. 

Ero stanchissimo e raffreddato. Mi infilai nel sacco a pelo e mangiai una mela e dei dolci che avevo comprato nel pomeriggio. Usai il bagno della sala d’attesa senza accendere la luce, come si era raccomandato di fare Gerard, tanto la luce del lampione lì fuori illumina abbastanza, mi disse. Bevvi ripetutamente l’acqua dal lavandino prima di addormentarmi.

Mi svegliai verso mezzanotte. quando passò la guardia con la torcia. Poi dormii fino alle cinque, quando la stazione cominciò a destarsi. Con calma avvolsi il sacco a pelo e preparai lo zaino. Alle cinque e mezzo, come previsto da Gerard, aprirono la sala d’attesa. Aspettai che il ferroviere si allontanasse. Poi uscii e comprai il biglietto allo sportello dove non c’era Gerard ma un suo collega più anziano. 

Arrivai a Parigi dopo alcune ore. Girai per la città fino a sera quando salii sull’espresso della notte che mi portò a Milano.

Arrivai quasi dodici ore prima dei miei quattro amici. Il viaggio era finito. Quando ci incontrammo due o tre giorni dopo, Orazio  raccontò che aveva viaggiato con Silvana e che avevano trascorso la notte a Londra, alla stazione Vittoria. 

Orazio disse che mentre dormivano gli avevano rubato la macchina fotografica e tutte le pellicole con le foto che aveva scattato durante il viaggio. Orazio aveva una Nikkormat nera; Ambrogio ed io usavamo due reflex Fuji, Pietro e Silvana non si erano portati la macchina fotografica.

***

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