
Su The New Yorker un lungo articolo/saggio di George Packer che traccia un bel profilo dello scrittore israeliano David Grossman, amato da molti dei frequentatori di questo blog:
– The Unconsoled A writer’s tragedy, and a nation’s.
L’articolo merita la lettura per molti motivi. Per esempio perché si occupa del peso che hanno avuto la vita e la morte del figlio Uri – uscciso in un’azione di guerra in Libano nel 2006 – sulla scrittura e il pensiero di Grossman. Oppure degli scrittori che lo hanno plasmato, dell’atmosfera di accerchiamanto nella quale è cresciuto; della speranza e forza con cui ha lavorato per essere soprattutto un romanziere, per evitare che gli eventi politici del suo paese – per quanto fondamentali per le sue opere – finissero con l’occupare gli spazi privati della vita domestica e dell’immaginazione individuale.
Vi cito solo questa osservazione sulla forza della letteratura:
Nel 1982 Grossman fu impegnato per cinque settimane come riservista dell’esercito, durante le operazioni legate all’invasione del Libano. Aveva con se una copia di un libro di memorie di Romain Gary, La promessa dell’alba – Per qualche giorno accampato in un villaggio libanese, saliva ogni sera su un tetto senza l’elmetto e il giubboto protettivo contro le schegge a leggere un capitolo del libro, in un luogo allo stesso tempo appartato ma vulnerabile al fuoco nemico.
“Era il mio modo di ricordare chi fossi prima della guerra”. Serviva a “provare a me stesso che la letteratura può proteggerci. Non nel senso che ci può salvare la vita”. Ma proteggere in un modo diverso: nel “non lasciare che la situazione in cui vivo possa confiscare quello che è importante per me“.
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