La politica negli anni ’70 viste da un ragazzino che osserva la violenza, da vicino←
È vero che spesso la strada sembra un inferno,
Una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
Dove non riconosciamo mai i nostri fratelli
Claudio Lolli, “Ho visto anche degli zingari felici”,
Ho visto anche degli zingari felici, 1976
La storia ha una forma composta di domande. Le domande, mi ripeto oggi, sono le parole più importanti che abbiamo. E provo a pensare alle domande che non si sono fatte a nessuno nel tempo che è stato nostro e le domande che invece ho almeno avuto la forza di fare.
“Non mi chiedi ma niente di personale” mi disse un giorno un’amica. E così ho fatto a lungo, soprattutto in passato.
A tredici anni ti ritrovi con il corpo che ti chiama, che rifiuti di avere, oppure, altri giorni, che non vuoi ignorare nemmeno un minuto e finisce con l’essere il tuo unico interesse. Mi trovai dunque con domande pronte che non feci, domande sul corpo, che quasi nessun preadolescente dei primi anni ‘70 avrebbe fatto agli adulti, sulle mutazioni del corpo, sugli odori nuovi che generavi, sull’attrazione sessuale e quell’interesse per le ragazze che ogni giorno si faceva prepotente ma del quale si può parlare solo con gli amici, e solo con alcuni. Decisi di non fare domande sull’io e considerai di tenere a bada le indagini che avevo in mente a proposito del mio corpo. Decisi che fossero altre le domande che avrei fatto. Senza indugiare sull’intimità, cosa che avrei sempre tenuto in un guscio, nel corso della mia vita, accessibile a pochi, quasi a nessuno.
Così, un giorno di ottobre del 1973 camminavo in centro Milano, in una piazza che non era una piazza qualsiasi. Era Piazza San Babila, era già il regno dei giovani fascisti, perlopiù ricchi e violenti, i sanbabilini, coloro che esercitavano una violenza estrema e diffusa, con aggressioni con i coltelli ma anche con le pistole, contro chiunque fosse giovane e sembrasse un “rosso”; causarono morti e feriti, e si scontrarono spesso in vari luoghi della città con i militanti di sinistra più militarizzati o meno sprovveduti. Io a tredici anni ero ancora ignaro di questo universo, persino faticavo a comprenderne i simboli. Conoscevo bene le “falci e martello” dei manifesti del Pci che vedevo sui muri del “Circolo famigliare” vicino a casa mia, conoscevo vagamente la natura di quel che era accaduto a Piazza Fontana quattro anni prima, più in termini di cattivi contro brava gente, senza cogliere esattamente i nessi fra i responsabili della strage del 1969 e il fascismo storico, la Repubblica sociale e i gruppi che ruotavano attorno al Movimento Sociale Italiano, gli apparati dello Stato complici.
Avevo anche un vago senso della cappa di tensione che gravava sulla città e a scuola ci avevano parlato dell’omicidio del Commissario Calabresi del maggio dell’anno prima e anche papà me ne aveva parlato, soprattutto, credo, per tranquillizzarmi. Anche il Corriere della Sera, che ogni giorno trovavo a casa, sempre più spesso aveva le prime pagine coperte dalle parole sulla violenza e le tensioni politiche, o sulla guerra del Kippur. Io intanto scoprivo il mondo soprattutto andando a vedere l’Inter allo stadio e leggendo le pagine dello sport.
Quel giorno di ottobre, dopo una terapia in un laboratorio della piazza San Babila, dove stavo completando certe cure successive a un intervento di asportazione delle adenoidi, notai un manifesto scritto a mano con un pennarello e firmato con una strana croce, quella croce che – come avrei scoperto in seguito – si chiama “celtica”, ma che per me allora, per quanto mi sembrasse lugubre e cupa, non aveva alcun significato.
Autobiografia ad Anghiari – Leggi anche:
Bainsizza, sulle tracce del nonno
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L’ultima volta che vidi mio padre
Lo zio Pierino e le sue storie
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Lessi il manifesto e restai disorientato dalla lunga sarcastica canzonatura di Salvador Allende e di coloro che qui in Italia, diceva quella lunga invettiva manoscritta in lettere stampatello maiuscole, manifestavano per difendere “il regime comunista che Allende aveva instaurato” – ricordo ancora bene queste parole – e li invitava a imbarcarsi per il Cile in modo che i generali cileni potessero pendersi cura di loro” come avevano fatto con Allende e i come stavano facendo con suoi della Unidad Popular. Suonava minaccioso certo, ma il tono sarcastico mi incuriosì e mi sembrò spiritoso, come la sceneggiatura di un fumetto, ero confuso e mi portai a casa dubbio e confusione – dei quali in seguito mi vergognai un po’, almeno con me stesso.
Appena tornato a casa andai a cercare mio padre e gli raccontai quella scoperta e gli chiesi cosa ne pensasse lui di Salvador Allende. Mio padre, con calma e lentamente mi raccontò degli aerei dell’aviazione militare cilena che volano sulla Moneda, come si erano visti chiaramente in televisione. Poi prese dal cassetto del suo banco da lavoro in cantina, dove teneva alcuni ritagli di giornale di eventi memorabili, prese una pagina ripiegata del Corriere di settembre di quell’anno, e mi mostrò una fotografia del presidente Allende con l’elmetto e una rivoltella nella mano destra che guarda in alto, nel cielo di Santiago i jet dei golpisti che si apprestano a bombardare il palazzo presidenziale della Moneda, poco prima di essere assassinato dagli sgherri di Pinochet. Allende – disse papà – era il presidente eletto democraticamente alle elezioni del 1970, i militari, probabilmente sostenuti dagli americani, hanno fatto un colpo di stato, lo hanno ucciso e ora stanno incarcerando e perseguitando i suoi sostenitori e tutti gli oppositori del regime dei golpisti. Indicò la foto con l’indice e mi guardò e disse: “Secondo te da che parte dobbiamo stare?”.
Ricordo invece in modo assai più vago e confuso una sera di una domenica di primavera del 1969, in maggio forse. Un autobus noleggiato dall’oratorio per le gite in montagna dei ragazzini, sul quale, al ritorno da una giornata alla Presolana, i più grandi cantavano calmi e i più di noi guardavano pensierosi fuori dai finestrini, lungo la discesa di tornanti, verso la pianura. Dal fondo dell’autobus, qualcuno dei ragazzi quasi adulti che ci accompagnavano intonò pian piano uno una specie di cantilena secca e rapida, ripetuta, ritmata, che salì di forza, volume e intonazione. Eran parole a me sconosciute, che suonavano esotiche, straniere, lontane. Ripetute, che divennero presto via via più decise, divennero sicure, e piene di orgoglio. Di quella sera ricordo anche l’odore; so di ricordare un odore, più che altro. Era probabilmente l’odore delle maglie sudate e delle calze nelle scarpe che avevano finalmente scoperto i piedi dopo una lunga giornata di caldo e di cammino. Alcuni di noi avevano conservato un panino o un dolce e lo si mangiava adesso, lentamente. Fummo come travolti da quella raffica di parole: Dubcek–Svoboda! Dubcek–Svoboda! Dubcek–Svoboda!… Due parole, che si ripetevano, mi parve poi quando ci ripensai, e provai io stesso a intonarle, si ripetevano senza finire mai, fino a quando arrivammo. Probabilmente, ripensandoci, non fu così, durò meno, ma lasciò un segno così forte che quando, anni dopo, da adulto, sentii di nuovo parlare degli eventi che quell’onda ripetuta di parole sull’autobus richiamava, fu un misto di commozione e di rabbia e di orizzonti che si dischiudevano a investirmi: Praga e la sua ambizione democratica e di libertà, di musica rock e benessere, di ideali e di futuro, di giorni di sole e di viaggi. E poi i carri armati sovietici, la rivoluzione pacifica schiacciata dalla violenza; e Jan Palach che si diede fuoco in piazza San Venceslao, come i monaci buddisti in Vietnam.
Tutto ciò lo scoprii poi, a poco a poco, più avanti, quando forse lo chiesi a casa a mamma o papà o quando ascoltai al telegiornale o alla radio una o entrambe quelle due parole; sì insomma, quando mi fu più chiaro cosa dicessero quei ragazzi in una sera del 1969 su un autobus dell’oratorio di ritorno dalla montagna, quando mi fu chiaro cominciai anche a rendermi conto che esisteva una storia popolata di esseri umani che facevano scelte, alcune giuste e altre sbagliate. Mi sembrò anche evidente che alcuni si schieravano, rischiando spesso la vita, dalla parte della giustizia e altri stavano o aiutavano, in un modo o nell’altro, l’ingiustizia.
Le parole di papà su Allende e il Cile si unirono a quella sera di alcuni anni prima. Nel frattempo c’erano state le domande e le risposte su Piazza Fontana e il commissario Calabresi. Poi vennero gli anni fra il 1973 del Cile e gli anni della violenza nelle strade italiane, nelle strade di Milano, fino ai cupi anni ‘80 della fine delle illusioni collettive, della Milano rampante e innervata dal berlusconismo attraverso le pratiche dei palazzinari e quella delle televisioni commerciali, gli ultimi anni dell’innocenza furono una corsa fra illusioni e speranze. iL momento di svolta credo fu il 1979, nel quale anche la morte di papà accompagnò anche la fine dell’idea ingenua che fosse possibile l’impossibile. Con le debite proporzioni, era quello che la storia del Cile di Allende e della Cecoslovacchia di Dubcek–Svoboda e Jan Palach aveva già cercato di dirmi. In fondo lo capii bene qualche anno dopo, a ritroso; lo capii leggendo Milan Kundera e soprattutto Jaroslav Hašek. I due scrittori cechi mi aiutarono a vedere che le armi che ci erano rimaste e con le quali ci saremmo dovuti difendere in quegli anni e negli anni a venire, erano soprattutto quelle dell’ironia e del comico, del riso. Si trattava solo di saperle usare, di riuscire a usarle.
Fra le molte scosse nella mia vita di quegli anni, provocate dagli sguardi sul mondo al quale mi affacciavo, ci furono due cortocircuiti decisivi.
Decisivi fra altri importanti; decisivi perché li ricordo bene, e anche perché furono emotivamente più forti e mi sembrò che spingessero avanti la storia nella quale sentii di essere inserito.
Il primo cominciò il 16 aprile del 1975 quando un giovane fascista uccise a colpi di pistola uno studente in Piazza Cavour a Milano, Claudio Varalli. Non avevo ancora compiuto 16 anni, e per giorni fu come un prolungato assordante suono di campana, con rintocchi di morte alternati a chiamate a correre nelle strade per riparare all’ingiustizia. Conoscevo Claudio quasi solo di vista, ma conoscevo bene la ragazza con la quale era fidanzato. Lui aveva due anni più di me, lei uno.
Quel pomeriggio del 16 aprile, Claudio e un gruppetto di altri militanti del Movimento dei lavoratori per il socialismo, una delle anime del movimento studentesco (Ms) milanese, stavano tornando da una manifestazione per il “diritto alla Casa”, quando incrociarono in piazza Cavour alcuni fascisti del Fronte universitario d’azione nazionale, il Fuan.. Nel processo tenuto alcuni anni dopo venne condannato a cinque anni il militante di estrema destra Antonio Braggion, iscritto a Avanguardia nazionale, “per eccesso colposo di legittima difesa” e ad altri 5 anni per “detenzione abusiva di armi”. Chiuso nell’auto, la sua auto nella quale si era rifugiato – fu la ricostruzione della difesa – Braggion, mentre i militanti del Ms cominciarono a prendere a bastonate la Mini minor (le bandiere rosse del Movimento in quegli anni venivano fissate a pesanti bastoni di legno che erano anche le armi più efficaci dell’azione dei “servizi d’ordine” dei cortei), Braggion sparò quattro volte contro i ragazzi all’esterno dell’auto, e Varalli stramazzò al suolo, ferito a morte.
Le manifestazioni studentesche del giorno dopo furono le prime alle quali partecipai e mi trovai gettato letteralmente in un mondo nuovo. Furono ore di esaltazione emotiva, di pianti di commozione, di paura, di fughe, di odio, sì anche di odio: perché imparai a odiare i fascisti, con tutto il cuore e l’anima.
Un tale uragano emotivo lascia il segno, al punto che ancora oggi, quando mi confronto con atteggiamenti, idee e sproloqui – così diffusi – che richiamano il fascismo, in una delle sue varie forme palesi o nascoste dietro la disinvoltura e un po’ di perbenismo – ancora oggi sovente avverto lo stesso moto tra lo stomaco e il cuore, che provai quel giorno del 1975, lo stesso disgusto e una rabbia simile.
Poi, il giorno dopo, il 17 aprile, fu una giornata epica. Chiunque fosse a Milano in quei giorni e fosse uno studente o un operaio giovane che si autodefiniva “impegnato politicamente a sinistra”, difficilmente ha dimenticato quei momenti. Fu epica e fu tragica, di un tragico così proprio di quegli anni da diventare per noi di quella generazione una giornata fondante. Ci sentimmo catapultati nell’età adulta. E per molti di noi, soprattutto coloro che avevano qualche anno in più, fu uno dei momenti di preparazione al Movimento del ‘77 e poi, per altri, alla deriva del terrorismo. Ma fu anche la matrice di un senso di giustizia contro l’ingiustizia, di bene contro male, che ci ha accompagnato, mi ha accompagnato, per lunghi tratti di vita, come se avesse lasciato una specie di riconoscibilità etico-politica d’istinto, un segnale di giudizio morale, pronto ad attivarsi nelle varie situazioni della vita.
Il 17 aprile del 1975, non avevo ancora 15 anni, partecipai dunque alla prima manifestazione politica della mia vita, i cortei per ricordare Claudio Varalli, per urlare la nostra rabbia contro i fascisti che sparavano e picchiavano, per chiedere giustizia, una giustizia “di Stato” nella quale non credevamo, quindi una giustizia diversa, sommaria probabilmente, anche se non lo sapevamo, non ce ne rendevamo nemmeno conto. I cortei di quel giorno mi parvero immensi e infiniti, lunghi e rumorosi, imparai slogan di ogni tipo, ero esaltatissimo e, in un certo senso, felice.
Poi tutto cambiò, improvvisamente. Anche se la tragedia che seguì, non ci impedì di tornare per le strade il giorno dopo e nei giorni e mesi successivi, fino a quando, nella primavera del 1978, gli omicidi di Fausto e Iaio in via Mancinelli, anche loro uccisi da neofascisti mai identificati, e il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro segnarono la linea d’ombra nella quale il pensiero divenne più complesso e la grande delusione per una rivoluzione che non arrivava e non sarebbe mai arrivata, dovetti elaborarla in una ragione meditata e capace di accettare l’idea che “soprattutto adesso si tratta di capire, visto che non riusciamo a cambiare”.
Dunque il 17 aprile la grande emozione e la rabbia diventarono prima di tutto paura, desiderio, bisogno di fuga. Ero in Corso di Porta Vittoria, ero uscito dal corteo, spaventato dalle sirene della polizia e delle ambulanze, dalle voci che correvano, la polizia stava caricando ovunque. Avevo visto lo schieramento della celere, o forse erano i carabinieri, davanti a sedi di aziende, di consolati, di uffici pubblici, lungo il percorso. I più grandi ci dicevano di stare uniti, di non farci trovare mai isolati quando avvenivano le cariche, di muoverci sempre dietro la protezione dei ragazzi del servizio d’ordine. Avevo paura, insieme a un amico che poi credo cambiò scuola e persi di vista, credo si chiamasse Paolino, ma non ne sono certo, non sono certo fosse lui, con lui ci si chiedeva se non fosse il caso di andarcene, di lasciare perdere. In Corso di Porta Vittoria, sostammo a lungo, il nostro tratto di corteo sostò a lungo, davanti al Palazzo di giustizia dove urlammo slogan e cantammo canzoni, pezzi di inni. In particolare, quel giorno venne adattata per Claudio Varalli la canzone in origine dedicata a Roberto Franceschi, morto davanti all’Università Bocconi tre anni prima, durante uno scontro fra la polizia e gli studenti, ucciso da un proiettile sparato da “un’arma in dotazione alle forze dell’ordine”. “Compagno Franceschi”, con le parole riferite a Claudio Varalli, la canticchiai per settimane, e ancora oggi in alcune giornate terse di primavera che mi ricordano quei giorni, mentre cammino da solo o mi trova ad attraversare di sera Piazza Cavour, mi trovo a ripetere sottovoce:
“Compagno Varalli sarai vendicato dalla giustizia del proletariato
nel cuore nel canto di chi lotterà il Compagno Varalli vivrà”.
Ma fu proprio in quella sosta davanti al Palazzo di Giustizia quel 17 aprile che la paura ebbe il sopravvento. Io e Paolino eravamo molto giovani, nemmeno 15 anni, avevamo con noi la borsa a tracolla di tela con i libri e i quaderni di scuola, ci allontanammo e nessuno ci notò; non certo la polizia che aveva ancora a che fare con il grosso del corteo, ancora compatto e che si faceva minaccioso davanti al Palazzo di Giustizia. Fu una decina di minuti dopo, senza che noi nemmeno ce ne accorgessimo, che cominciarono le cariche più pesanti; aggressioni al corteo dei reparti della Celere, qualche vetrina sfondata, il tentativo di forzare lo schieramento dei Carabinieri e della polizia in via Mancini, la via più famigerata di Milano per chi era di sinistra, la sede dei fascisti, il luogo dove stava Il Movimento sociale italiano, da dove partivano i frequenti raid assassini dei sanbabilini.
I mezzi blindati dei Carabinieri erano impazziti, dissero i ragazzi presenti, lì in Corso XXII marzo, la lunga e larga via sulla quale sbuca via Mancini.
Già i Carabinieri. Con quel nome che in quei mesi, in quegli anni, veniva con naturalezza, anche se avevano ovviamente storie diverse, accostato ai Carabineros del generale Cesar Mendoza Duránet in Cile, fra i più convinti sostenitori e collaboratori dei golpisti guidati da Augusto Pinochet. I mezzi dei Carabinieri quel giorno in Corso XXII marzo a Milano puntarono i manifestanti come se le camionette e gli autocarri pesanti fossero armi e salirono sui marciapiedi più volte, correndo a velocità sostenuta. Ci furono parecchie persone investite e ferite. E ci fu Giannino Zibecchi, ucciso. Travolto da uno di questi autocarri pesanti, era un CM-52.
Fu uno shock per tutti. Tanto più lo fu per noi che concludemmo quella giornata, la prima di “partecipazione politica” con un morto schiacciato da un mezzo dei Carabinieri che seguiva “la morte per mano fascista” di uno studente che conoscevamo di persona, ucciso il giorno prima.
Papà la sera, quando gli raccontai che ero stato in quel corteo, mi disse che capiva la mia rabbia e il mio dolore, ma che la faccenda andava guardata con calma, senza farsi prendere dalla frenesia di giudicare. Intanto – mi disse – dobbiamo tenere conto che in Piazza Cavour i ragazzi del Movimento studentesco hanno circondato l’auto del fascista che ha sparato; certo questo tizio è un delinquente – aggiunse – però probabilmente si è spaventato e ha pensato di difendersi. Io mi scandalizzai, mi misi a piangere, provai a dirgli che era assurdo che lui credesse a quelle “bugie borghesi”. Lui mi lasciò parlare e urlare e piangere. Poi mi avvicinò di nuovo e continuò, più che altro provò a spiegare come la vedeva lui. Soprattutto – aggiunse – oggi a Milano, in quel corteo al quale hai partecipato, c’erano anche dei teppisti. Hanno provato ad attaccare il tribunale, hanno spaccato delle vetrine, hanno aggredito dei poliziotti. Quello che è successo è terribile, con quel ragazzo morto sul marciapiede. Ma fai attenzione, prima di tutto, vedi che ci si può fare molto male, poi, fai attenzione, – aggiunse – le proteste non dovrebbero mai essere violente.
Secondo le ricostruzioni successive, in quell’enorme e composito corteo erano già presenti con una certa forza organizzativa i nuclei di Autonomia Operaia che avrebbero fatto più tardi da ponte fra quella fase storica della politica per le strade della città e la successiva, con il protagonismo violento e l’uso delle pistole, che si sarebbe espresso nel 1977 in via De Amicis, come suo momento e luogo simbolo, espresso anche da immagini memorabili, come quella, che ho citato in un altra parte di queste ricerche, del ragazzo incappucciato che spara verso la polizia.
Quel giorno fu dunque un vero rito di passaggio, per me, per noi quindici o sedicenni, ma anche per tutto ciò che si autodefiniva “il movimento” cresciuto sull’onda del ‘68. È come se, il giorno stesso in cui mi parve di cominciare questa scalata verso il cielo della partecipazione politica “rivoluzionaria”, incontrassi anche l’ultimo giorno dell’illusione.
Dopo di allora, ma io lo capii, ovviamente, assai più tardi, nulla sarebbe stato come prima. Quel “movimento” si disperse, si divise, si diramò in cento rivoli, sui quali è stato scritto e detto moltissimo. Anche con interpretazioni diverse e discutibili. Come ho già scritto, di tutto ciò mi resi finalmente conto nel 1978, dopo Moro e gli omicidi di Fausto e Iaio al Casoretto; anzi lo avvertii, lo sentii come un brivido, non espresso da un vero discorso, sulla pelle, lungo la schiena; lo elaborai parlando con alcuni amici e leggendo, leggendo molto.
La violenza politica nelle strade di Milano negli anni Settanta fu terribile e incomprensibile, vista da fuori o pensata dopo, anni dopo: i fascisti usavano i coltelli e le pistole, tendevano agguati, colpivano a caso chi dall’abbigliamento e dai capelli sembrava loro un “rosso”, un “cinese”. I servizi d’ordine dei vari gruppi della sinistra più radicale, “estrema” come scrivevano i giornali “borghesi”, risposero alla violenza neofascista con una violenza che si tingeva di pretesa d’autodifesa che spesso fu giustificata, fu davvero autodifesa; ma che altre volte si manifestò con agguati vigliacchi a giovani che venivano crudelmente picchiati con bastoni, spranghe e chiavi inglesi: “Hazet-36, fascio dove sei?”. Chi cammina con attenzione oggi per le vie di Milano incontra decine di lapidi: molte sono per i partigiani assassinati dai repubblichini o dai nazisti o morti in combattimento, ma parecchie ricordano le vittime della violenza degli anni ‘70, alle quali si aggiunsero via via le lapidi per i morti ammazzati dai terroristi neri e rossi negli anni successivi, fino alla metà degli anni ‘80. Per Claudio Varalli e Giannino Zibecchi venne eretto anche un monumento in Piazza Santo Stefano, a pochi passi dall’Università Statale. Poche settimane prima dell’omicido di Claudio Varalli, un giovane “fascista”, Sergio Ramelli, un ragazzo del Fronte della Gioventù di 19 anni, venne picchiato duramente da un gruppetto di militanti di Avanguardia Operaia vicino a casa. Ricoverato in condizioni gravissime in ospedale, morì il 29 aprile di quell’anno. Tredici giorni dopo Claudio Varalli, dodici dopo Giannino Zibecchi. A Milano si parlò a lungo di Ramelli, di Varalli, Zibecchi e degli altri. Mi sforzai di pensare, per mesi, forse per anni, che la morte di Sergio Ramelli fosse giusta. Inevitabile. Un fascista, per quanto giovane, era un fascista. Doveva pagare. Magari non con la morte; ma la morte era stato un incidente, un effetto non voluto ma in fondo non ingiustificato. Impiegai dei mesi, forse un anno e più per mettere in questione questo giudizio, che mi pareva naturale. Non so esattamente come lo capii che non poteva e non doveva andare così. Che il mio giudizio non poteva essere che semplicemente che se sei un ragazzo di 19 anni e ti proclami fascista e ti comporti come tale, meriti di morire ammazzato.
Oltre a papà, ad alcune ragazze che mi dissero più volte, e con tutta la dolcezza del mondo, che tutta quella violenza che ci circondava oltre a essere ripugnante faceva male anche a chi la infliggeva agli altri, mi aiutò a capire, anzi ad assumere uno sguardo obliquo che mi permise di capire meglio il resto, sì, mi aiutò Hermann Hesse. I libri di Hermann Hesse. Siddharta, Narciso e Boccadoro, Il lupo della steppa. Libri dei quali ricordo quasi nulla, tranne forse la storia di Siddharta che alcuni anni fa cercai nei vari scaffali di casa e non riuscii a trovare. Alla prima occasione lo ricomprai; è in commercio ancora nella stessa edizione di allora, “gli Adelphi”, con la copertina verde chiaro, un libro che continua a vendere molto e che è molto amato, anche oggi, dai giovanissimi. Ma non lo lessi un altra volta. O meglio, lo sfogliai, scorsi qualche paragrafo qua e là, poi lo riposi. È un libro che mi è molto caro, come a moltissimi della mia generazione, ma non osai davvero rileggerlo. Allora, a 15 anni, quando lo scoprii, mi aiutò a vedere l’umanità nei ragazzi che stavano dall’altra parte della barricata. Non che smisi di disprezzarli, no. Li disprezzo ancora oggi. Ma misi in dubbio, subito, in quei mesi d’estate del 1975, misi in dubbio che la nostra visione del mondo, per quanto giusta, meritasse di mietere vittime, nostre e loro. Ricordo ancora con un certo disagio – anche quando se ne parla oggi, ricordandolo con una certa incoscienza – lo slogan: “Uccidere un fascista non è reato, è solo la giustizia del proletariato”. Con un sorriso, e compiaciuto della mia ingenuità apro oggi, mentre sono qui a scrivere nella casa silenziosa, di notte, apro Siddharta e ne scorro paragrafi o, meglio, singole frasi. È sull’accumulo delle frasi di quel libro e degli altri romanzi che, credo, ci siamo formati, più che sulla consapevolezza complessiva di quelle opere. Siamo rimasti soli davanti alla storia che correva, assurda, con i libri ad aiutarci. Pochi erano accanto a noi. E lo sfondo era, in effetti, cupo. Piazza Fontana, il treno Italicus, le trame golpiste, gli omicidi neri: le nostre erano paure e fantasie di un fascismo pronto a colpire e tornare; fantasie che erano alimentate dai fatti, come la storia ha dimostrato. Fummo soli a osservarli, senza adulti, e ci spaventammo, pensammo che la risposta potesse essere una violenza legittima. Lo pensammo per poco, poi preferimmo parlare, giudicare, ma l’azione politica ci parve irraggiungibile, piena di errori, a un certo momento anche concretamente e inutilmente pericolosa.
Scrivendo queste pagine, questo capitolo delle mie ricerche autobiografiche, ascolto in modo compulsivo le Variazioni Goldberg di Bach. Certo, Gould, ma non solo. Ho scoperto anche la versione delle Variazioni di Beatrice Rana, in questi mesi. C’è un filo che lega le Variazioni Goldberg a Siddharta, e alla cura che, oggi, credo sia indispensabile offrire ai più deboli, a mia mamma, a Bianca, prima, perché ormai se n’è andata, ai senza fissa dimora che si incontrano ogni martedì, anzi, ogni giorno. Allora, a 15-16 anni pensavo a come Siddharta sarebbe rimasto nella mia vita.
Fu poi con Walter Alasia che la storia assunse il colore agghiacciante che la morte di Claudio e Giannino e anche di Ramelli avevano preparato. Già Alasia. Insieme a Antonio Lo Muscio, la cui storia è poco più di una nota a piè di pagina nella storia del cosiddetto terrorismo rosso. Lo Muscio era il fratello del fidanzato di una mia compagna di scuola. Ricordo che me ne parlò senza interruzione per due o tre mattine in classe: poche ore prima, eravamo nel 1977, era stato ucciso dalla polizia davanti a San Pietro in Vincoli a Roma. Alasia e Lo Muscio. Di Lo Muscio ricordo solo il pianto di Ivana, la fidanzata del fratello. Diceva che i poliziotti erano degli assassini, che il fratello del suo ragazzo, del quale nemmeno ricordo il nome, era disarmato, stava parlando solo con la sua compagna e un’altra ragazza: Ivana piangeva, diceva che non era giusto. Non l’avevo mai, prima di allora, sentita dire una parola sulla politica; non l’avevo mai vista a una manifestazione. La giudicavo una di quelle ragazze che “hanno in testa solo la discoteca, e i vestiti”. Ascoltava e parlava di musica che alle mie orecchie era orribile. Io avevo scoperto Bruce Springsteen, il resto contava quasi nulla, a meno che non fossero Neil Young, Bob Dylan o i Genesis. Con Ivana parlavo pochissimo, mi sembrava priva di ogni interesse. E poi quel giorno saltò fuori con quel pianto incontrollato. E Ivana mi raccontò. Quando le chiesi cosa fosse successo. Chissà che fine ha fatto Ivana. Nemmeno ricordo il suo cognome. Ricordo solo che era magrissima, che aveva dei lunghi capelli castani divisi a metà e che era fidanzata col fratello di Antonio Lo Muscio, dei Nap, morto ammazzato nel 1977. Antonio Lo Muscio era nato a Trinitapoli il 28 marzo del 1950 e morì a Roma il 1º luglio del 1977. Ventisette anni. Era ricercato perché aveva ucciso un poliziotto a Roma su un autobus nel marzo di quello stesso 1977. Pensando a quei giorni e al pianto senza argine e controllo di Ivana a 17 anni, ho cercato le poche informazioni che si trovano in rete su Antonio Lo Muscio. Proletario di famiglia emigrata a Cinisello Balsamo, aveva trovato un lavoro in una piccola fabbrica dell’hinterland di Milano; poi decide di non andare a fare la leva militare, e viene condannato come renitente a più di un anno di carcere. In prigione diventa un attivista politico e, quando esce, nel 1975, è pronto per i Nap, i Nuclei Armati Proletari, la sigla del terrorismo più radicata nel meridione e con un’organizzazione meno rigida delle Brigate Rosse. Lo Muscio, secondo la ricostruzione fatta sui giornali in quei giorni, il 22 marzo del 1977 sparo a un agente di polizia, Claudio Graziosi, un ragazzo di 21 anni che non era in servizio in quel momento ma che su quell’autobus a Roma in un giorno di primavera riconobbe e cercò di arrestare Maria Pia Vianale, militante dei Nap da poco evasa dal carcere di Pozzuoli. Lo Muscio gli sparò più volte alle spalle e insieme alla Vianale fuggì. Il primo luglio Antonio Lo Muscio era seduto sulla scalinata di San Pietro in Vincoli insieme a Maria Pia Vianale e a Franca Salerno, la sua compagna dell’epoca dalla quale ebbe anche un figlio. Tre ragazzi sulla scalinata di una basilica bellissima, una scena nella quale tutti i ragazzi che frequentavano le città o viaggiavano si potevano identificare. Sui quali piombò la morte; la morte che loro stessi avevano inflitto ad altri. Ivana in quei giorni non riuscì a dire una parola per il ragazzo-poliziotto ucciso da Antonio con due o tre colpi sparati alle spalle. Ma pianse a lungo su quella foto pubblicata dai giornali nella quale Antonio è riverso bocconi con le braccia distese, i capelli neri lunghi e i baffi. Non ricordo che nei restanti tre anni di scuola Ivana abbia parlato ancora di Antonio; se lo fece non ne parlò mai con me.
Walter Alasia dicevo. La sparatoria nella quale morì Alasia a Sesto San Giovanni avvenne quasi sette mesi prima della morte di Lo Muscio. Alasia segnò una specie di spartiacque, la strada che poteva prendere quell’agitarsi di ribellione che mi pareva giusta e sacrosanta ma che finiva per arrestarsi nel sangue, proprio e degli altri.
I volantini delle Br, i proclami dopo gli omicidi e i rapimenti suonavano familiari: cosa c’era che non funzionava in tutto ciò? L’appartamento di via Leopardi a Sesto, dove la polizia entra all’alba livida del 15 dicembre del 1976, è il luogo della fine dell’ingenuità politica. L’ingenuità però aveva le parole per esprimersi, la fine dell’ingenuità trovò poco altro che il silenzio. Mi sembrò adulto Alasia nelle foto sui giornali, ragazzo di periferia con i capelli lunghi, eppure Walter Alasia aveva solo quattro anni più di me. Pensai solo anni dopo ai racconti di papà sugli operai di Sesto o alle vie e alle manifestazioni che forse Alasia aveva percorso insieme a tanti di noi. Allora, alla fine di quel 1976 dei miei sedici anni, mi parve una specie di soldato pronto a morire per una causa della quale non sembrava vedersi il senso e che forse nemmeno Walter conosceva o forse non ricordava più. Eppure Alasia e gli altri erano vicini a noi, spalla a spalla.
Quando un paio di anni dopo, Giorgio Manzini scrisse il libro dedicato ad Alasia brigatista, all’ambiente della famiglia, agli operai e alle lotte sindacali, fu improvvisamente più chiaro che quelli delle Br o di Prima Linea erano ragazzi come noi, solo un poco più grandi e che sarebbe bastato poco per diventare come loro.
Ricordo che nel 1977 partecipai ad alcune delle cosiddette “riunioni” del movimento studentesco e delle varie articolazioni che assunse la sinistra radicale di quegli anni; incontri nei quali si parlava esplicitamente di tenere agguati ai fascisti del quartiere (la mia scuola era a Lambrate), di legittimità della guerriglia armata, e si favoleggiava di “compagni” che sapevano dove procurarsi delle armi per difendersi dai fascisti e dalla polizia. Io abbandonai ben presto quella “militanza”, più per pigrizia e noia e paura che per consapevolezza, credo. Avevo scoperto, con tutta l’ingenuità possibile, Ivan Goncarov e Herman Hesse e improvvisamente quell’agitarsi col sangue agli occhi e il turbine di sproloqui violenti mi parve privo di senso e fastidioso, oltre che spaventoso.
Eppure in riunioni come quelle si formarono idee che presto si sarebbero tradotte in violenza estrema, mortale. Immagino che da una di quelle riunioni uscirono per esempio un giorno gli assassini di Walter Tobagi. Uno dei quali, peraltro, conobbi personalmente, ma in altre circostanze. Era il 1978, e nella scuola che frequentavo gli insegnanti titolari delle cattedre si assentavano spesso e le cattedre erano sempre occupate da supplenti precari. Un giorno di primavera avvenne un nuovo avvicendamento fra chi avrebbe dovuto tenere la classe nelle ore di educazione fisica. Si presentò un ragazzo dai capelli corti, non alto e con il fisico asciutto, si presentò come Mario. Per riempire quell’ora e le ore di ginnastica delle due o tre settimane che seguirono, presi a conversare con quell’uomo gentile e disponibile, già adulto ma ancora giovane, avrei successivamente scoperto che allora aveva più o meno 25 anni. Parlammo soprattutto di musica, con la superficialità un po’ spavalda di quei mesi, volevo mostrare di conoscere gruppi e artisti sofisticati. Non ricordo altro di lui se non un certo sarcasmo che applicava ai ragazzi della nostra classe, me compreso, non ricordo di avergli mai sentito pronunciare un giudizio politico, sebbene quelli fossero i mesi del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro. Si chiamava Mario Marano.
Mario Marano il 28 maggio del 1980 sparò insieme a Marco Barbone i colpi di pistola che uccisero, in via Salaino, Walter Tobagi. Marano lo riconobbi quando i giornali parlarono dell’arresto dei membri della Brigata Ventotto marzo citando i nomi e i cognomi dei componenti. Negli anni successivi, poi, seguii la sua storia giudiziaria, fino al “pentimento” che lo portò, insieme a quasi tutti i suoi compagni, a uscire ben presto dal carcere. Scrivendo queste note ho anche scoperto che Marano è morto nel 2020 a 67 anni. Di lui restano le foto del processo, già stempiato e con i baffi e un filmato nel quale racconta in tribunale i momenti dell’agguato a Tobagi.
Quando le Brigate Rosse uccisero a Genova Guido Rossa, nel gennaio del 1979, litigai furiosamente con una amica, Silvana, che disse che in fondo le Br dovevano difendersi dai traditori della classe operaia. Mi sentii offeso e soprattutto tradito, sì, io tradito. Da un’amica alla quale volevo bene e che mi sembrava avesse perso ogni ragione, incapace per altro di argomentare quel suo delirio. Non credo fu davvero a causa di questo litigio, bensì per quelle circostanze che si creano nei passaggi della vita – come la fine della scuola, l’università, la morte di una persona cara, una malattia – ma in quei mesi si scavò fra noi un solco profondo che non superammo mai più. La vidi solo un’altra volta, quando la sorella, eravamo nel 1981, mi chiamò per chiedermi se me la sentissi di parlarle, perché Silvana non stava per niente bene e lei e la madre avevano pensato che magari incontrando di nuovo gli amici con i quali – disse ancora la sorella – era così legata, e ai quali voleva così bene, sì insomma lei e la madre pensavano che l’avrebbe aiutata parlare con qualcuno di noi. Certo – risposi io – mi farebbe piacere, possiamo incontrarci da qualche parte, magari all’università visto che, mi aveva detto la sorella, Silvana frequentava una facoltà della Statale, non ricordo esattamente quale fosse. Le dissi anche che avrei parlato con qualcun altro degli amici del gruppo così che potessimo vederci tutti insieme. Le chiesi dunque se potevo telefonare direttamente a Silvana. Lei però esitò, sembrò incerta e mi disse che forse era meglio se fosse stata prima lei parlarne con Silvana. Mi richiamò tre settimane dopo, dicendo che la questione si era complicata, che Silvana aveva avuto una crisi di nervi e che forse, pensavano lei e la madre, forse si poteva organizzare quell’incontro, ma andava fissato non all’università, bensì in ospedale. In ospedale? Sì rispose, non è nulla di grava ma hanno preferito ricoverarla.
Risultò che Silvana era da una decina di giorni all’ospedale di Mombello, l’ospedale psichiatrico più noto della provincia di Milano: per antonomasia, “l’ospedale dei matti”.
Da poco la legge Basaglia aveva disposto la “chiusura dei manicomi”. A Mombello alcuni reparti erano stati smantellati ma una buona parte dell’ospedale era ancora in attività. Ci andai, dopo un paio di giorni di esitazione, con Roberto. Attraversammo due o tre grandi cortili, affiancando anche alcuni padiglioni ormai deserti, ed entrammo nel reparto che ci aveva indicato la sorella di Silvana. Concitata, al telefono si era raccomandata di parlarle dei “giorni felici della scuola”, e di quel viaggio in Scozia che tanto le era piaciuto. Soprattutto – disse la sorella – non chiedete nulla della sua malattia, del suo esaurimento nervoso, così lo chiamò, non fatele domande sull’università perché si irrita, parlate del passato, solo del passato, non parlate del futuro.
Ricordo quell’ospedale come un luogo senza centro, con decine di corridoi e passaggi dai quali erano stati spostati gli armadi che avevano lasciato come un’ombra più chiara sul muro grigio. E alcuni di questi corridoi avevano un soffitto a volta, e finestre centinate con il telaio all’inglese che davano l’impressione di una residenza decaduta. Impiegammo almeno 15 minuti per trovare il reparto dove Silvana era seduta sul letto e, vedendoci, ci riconobbe e cominciò a ridere; una risata rumorosa, che ricordava proprio la sua risata ma che ora appariva incontrollata, priva di orientamento e confini prevedibili. Restammo non più di un quarto d’ora, durante il quale perlopiù Silvana ci insultò, fece qualche commento a sfondo sessuale e ci propose di sdraiarci sotto il suo letto per proteggerla la notte. Poco prima che ce ne andassimo tornò a parlare delle Brigate Rosse e disse che noi non le avevamo mai capite e siamoe stati degli stronzi, così disse, perché non le avete aiutate ed è anche per questo che – aggiunse – sono finita così, in questo posto di merda. Perché lo vedete anche voi che questo è un posto di merda no? Non c’è bisogno che ve lo spieghi io, giusto?
Non incontrammo mai più Silvana, provai a chiamarla qualche anno più tardi ma a quel telefono non rispose nessuno, quindi, con un certo sollievo, lasciai perdere. Ancora oggi non so che fine abbia fatto, se si sia ripresa o se si sia trascinata malamente nella vita.
Leggendo le bozze di questo capitolo, il mio amico Roberto, che era presente anche quel giorno a Mombello, mi ha chiesto se non temessi di dare un tono troppo cupo a queste pagine sugli anni ’70 che, in fondo, sono stati gli anni della nostra adolescenza – ha aggiunto – e non ricordo che ne fossimo usciti così male. E ovviamente Roberto, in quanto mio lettore più ancora che come mio amico, ha ragione. Anche io quando parlo degli anni ’70, anche dei miei anni ’70, mi trovo, quasi sempre, con un sapore acido in bocca. Eppure in quegli anni cambiarono completamente il costume e la cultura di questo paese, un’intera generazione trasformò il modo di parlare, di stare insieme, di fare e ascoltare la musica, di scrivere e di leggere, di guardare i genitori e di pretendere i diritti.
Quell’acido in bocca – ho detto a Roberto – temo sia più che altro il regalo della decisione di raccontare alcuni momenti, e quando mi trovo a selezionare questi momenti finisco per trovarmi le tasche piene di cose drammatiche. Ma sappiamo che ci fu ben altro. La scoperta del cinema, la musica di quegli anni che forse resta la più bella della seconda metà del secolo. Del resto si sa anche che nell’età matura conserviamo una visione troppo drammatica dell’adolescenza; finiamo col mettere da parte i giorni sereni, a lasciarli nell’ombra. E poi, devo dirtelo – ho aggiunto io – per parte mia, per quanto mi riguarda, ho vissuto gli anni a cavallo fra il ’79 e i primi anni ’80, come anni di sconfitta, sconfitta di una speranza politica, speranza di una rigenerazione.
Non so bene che forma volessi che assumesse la rigenerazione, o forse doveva solo essere una trasformazione radicale che non solo non ci fu; ma che fu travolta da una cultura e un linguaggio e un modo di essere e di dichiararsi che furono volgari e cialtroni e che, purtroppo, ebbero Milano, quella Milano che si andava berlusconizzando, come centro simbolico e propulsivo. Sì insomma – ho aggiunto – cerca di capirmi, cerca di vedere da dove viene il fondo amaro, acido e un po’ triste di queste parole.
(Illustrazione in apertura: Carlo Carrà, Stazione a Milano, 1909 – WIkiArt)
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