
Cercavo Un cuore così bianco di Javier Marías. E mi sono trovata a leggere il suo Tutte le anime. La gentile ragazza che lavora nella libreria a cui sono più affezionata mi ha consigliato infatti con garbo di comprare la trilogia dell’autore e non un solo romanzo. Una Trilogia sentimentale. E così ho fatto, ovviamente iniziando dalla prima opera. E allora, prima di continuare con la lettura della seconda, Un cuore così bianco appunto, e poi della terza (Domani nella battaglia pensa a me) mi piace fermare sul nostro blog le tormentate impressioni che Marías mi ha lasciato con Todas las almas (titolo originale).

Le anime di cui ci parla Marías sono quelle che incontra tra i professori del dipartimento dell’università di Oxford dove lui, l’español, rimane due anni per insegnare. Ne parla una volta tornato nella sua Madrid, guardando da lontano il tempo trascorso nel dipartimento All Souls (da qui il titolo del romanzo). C’è l’unico vero amico che trova, Cromer-Blake, professore gay molto ironico, il più anziano Toby Rylands e la donna di cui diventerà amante, la professoressa Clara Bayes.
Di fatto non c’è una storia. C’è il racconto di quei giorni trascorsi nell’Università e del tormento interiore.
Continuo.
Strisciante.
Dovuto al fatto di sentirsi straniero in terra straniera. In un ambiente rigido, provinciale e chiuso in regole ferree come Oxford
luogo immutabile e inospitale e conservato sotto sciroppo
Un ambiente che lo fa sentire solo. Diverso. Confuso.
Non so più distinguere ciò a cui si devono dedicare pensieri a ciò a cui dedicarli è una deplorevole perdita di tempo e di concentrazione
Un bel tormento davvero quello di Marías, che si sofferma più volte sul concetto del tempo e del pensiero. Sa quanto è faticoso “pensare con turbamento e perciò pensare tanto“, al punto che a volte è necessario “smettere di pensare e parlare invece per riposare da quel pensiero che unifica e associa e stabilisce troppi legami“.
Ma anche lì si rischia di rimanere incastrati perché
ci condanniamo sempre con quello che diciamo. Non con quello che facciamo.
E quindi alla fine si è soli. Nel pensiero e nelle parole. E la sua solitudine è spiegata benissimo in due pagine che mi hanno fatto sorridere ma che sono chiarissime nella metafora dell’immondizia.
Il sacchetto e il secchio sono la prova del fatto che quel giorno è esistito e si è accumulato… L’unico riscontro, l’unica prova o conferma del trascorrere di quell’uomo.
E allora il pensiero serve, perché ci collega al mondo e soprattutto ci rende vivi.
La cosa grave nell’avvicinarsi alla morte non è la morte in sé… ma il fatto che non si potrà più fantasticare su quello che dovrà succedere… Ciò che mi fa alzare al mattino continua a essere l’attesa di quello che sta per arrivare e non si annuncia. È l’attesa dell’inatteso.
L’attesa dell’inatteso. Che quando arriva genera pensieri. Traducendosi in vita e allontanando la morte. In un circuito che ogni volta ricomincia. E che travolge le anime. O meglio: Tutte le anime che accettano di fermarsi a pensare.
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