Ritorno su Julian Barnes, Il senso di una fine (Einaudi), del quale ci ha parlato qualche settimana fa anche lettoreambulante.
Una delle qualità maggiori di questo breve romanzo mi sembra la sua capacità di indurci a pensare, ragionare, riconsiderare, sia il nostro senso del tempo, sia, soprattutto, come questo tempo lo raccontiamo: agli altri e a noi stessi. E come si arrivi, in momenti differenti della vita, a raccontarselo diversamente, soprattutto costretti da eventi, rivelazioni, trasformazioni, coraggio ritrovato dopo averlo smarrito [sì ovviamente siamo in piena questione storytelling e faccende correlate].

“Parliamo di memoria – dice il narratore di Nothing to Be Frightened Of, un altro libro di Barnes, il più direttamente autobiografico – ma dovremmo forse parlare più di quello che ci scordiamo, anche se si tratta di un’attività più difficile, addirittura impossibile, logicamente”.
Un’idea pienamente espressa e rappresentata anche nel racconto della “sua” storia, fatto da Tony Webster, il narratore-protagonista di Il senso di una fine.
Quando Tony Webster lascia quella specie di rassegnazione che gli fa apprezzare la sua (e forse, a noi, la nostra) normalità quotidiana, per arrivare a ri-considerare quel che del suo passato aveva capito, quello che sapeva, la storia che si era raccontata: ecco che il suo universo scivola verso significati, possibili sensi, diversi. E tutt’altro che rassicuranti, decisamente eversivi. Perché conosce eventi diversi da quelli che sapeva e aveva accettato come veri; motivazioni diverse dei gesti e delle parole sue e delle persone che gli erano vicine.
E poi si continua a scivolare. E anche la storia riscritta in un primo momento di “nuova” autocoscienza si rivela parziale, forse addirittura falsata. Mancano elementi: questa volta non perché non si sono voluti vedere ma perché non si conoscevano. Solo che, alla luce di queste nuove conoscenze, davvero sorprendenti e destabilizzanti, l’ordine che ci si è dati, tutto traballa.
Come ha scritto Roberto Bertinetti sul domenicale del Sole 24 Ore del 9 settembre, il romanzo di Barnes – giocato sul filo di unione fra letteratura e filosofia – ci suggerisce che la nostra fatica di analisi della nostra vita, per quanto difficile e lunga, ci aiuta a scoprire, o avvicinare, il “senso individuale”, il nostro. Quello oggettivo “lascia intendere, non esiste o, se davvero esiste, resta inconoscibile”.
Questo senso oggettivo (quasi) inconoscibile viene espresso bene da Veronica, la ragazza con la quale Tony intreccia una relazione durante gli anni dell’Università che riemerge nell’età matura portando con sé un presunto diario di Adrian, amico di Tony. Senza aggiungere ulteriori pezzi per evitare di rovinare le sorprese che aspettano il lettore de Il senso di una fine, basta dire che Veronica esprime l’impossibilità di conoscenza oggettiva (che ovviamente manca anche a lei) ripetendo più volte in dialoghi duri e allusivi un tremendo “Ma proprio non ci arrivi” – “You don’t get it. You never did”.
Ma non è il caso di essere troppo duri con Tony. Certo, si è nascosto dentro la sua versione di storia. Ha quasi imbalsamato Adrian in un ricordo idealizzato e ha cancellato Veronica. Ma viene da pensare che, in fondo, anche Veronica ha tenuto Tony fuori dalla sua storia della vita. Ed è anche per questo che non ci arriva.
Insomma, siamo tutti un po’ come Tony. Anzi no. Tony mi sembra ammirevole nello sforzo che fa per interpretare la “sua” storia alla luce dei nuovi fatti, delle parole che li descrivono, che prima non aveva colto; arriva piano piano dove prima non era arrivato. E non tutti siamo come lui, capaci di sforzarci così tanto per riconsiderare.
Certo, siamo sempre, come detto, nella sfera soggettiva, perché siamo esseri capaci di conoscenze parziali. La sfera oggettiva è forse solo il totale delle storie soggettive che ci raccontiamo. E quindi non ci apparterrà mai.
Anche per questo, diciamocelo, leggiamo la letteratura. Perché ci permette di superare, alcune volte, questi limiti.
Una citazione dal libro, è di Adrian, l’amico di Tony e contro-protagonista in filigrana del romanzo:
“La storia è quella certezza che prende consistenza là dove le imperfezioni della memoria incontrano le inadeguatezze della documentazione” [Adrian la formula citando a sua volta un certo Patrick Lagrange: uno storico inventato appositamente dentro la fiction di questo romanzo]
Due piccoli appunti ulteriori: uno, sulla costante presenza dell’ironia nella scrittura di Barnes. Esemplare.
Due, sulla sua forza nel narrare il quotidiano. Per esempio il dialogo nel pub su come vengono effettivamente tagliate le patate che nel menu vengono descritte come “tagliate a mano”.
Leggete questo libro.
Rispondi