È triste leggere Storytelling, la fabbrica delle storie, di Christian Salmon (Fazi editore). Perché il libro mette a fuoco e organizza idee che ci stanno addosso e ci infastidiscono e di cui ci siamo resi conto più o meno chiaramente negli ultimi dieci anni: l’arte di narrare storie è stata manipolata e ridotta a strumento scientifico di persuasione, di propaganda, di manipolazione, nelle mani della politica e – soprattutto – degli uffici marketing e di management delle aziende.
Una qualsiasi presentazione di un esponente del marketing di una grande impresa è colma della parola “storie” e mostra, in trasparenza, l’uso di tecniche narrative. Tutto è una “storia”: il lancio di un prodotto, il servizio che offre l’azienda; il modo in cui tratta i propri dipendenti e i propri clienti, la giustificazione per l’uso del lavoro precario.
Esemplare, nel primo capitolo del libro di Salmon, la ricostruzione di come la Nike abbia superato le difficoltà derivate dalle accuse di usare manodopera sfruttata nei paesi poveri, con una serie di narrazioni e contronarrazioni: il tutto è stato fatto con l’apporto di David Boje, pioniere dell’organizational storytelling e attivo negli anni Novanta nelle campagne contro la Nike.
Secondo Boje
le imprese sono organizzazioni narrative, percorse da molteplici racconti, terreno di un dialogo costante tra narrazioni che si oppongono o si completano. Esse sono travagliate internamente da implicazioni che sono tanto narrative quanto economiche, finanziarie o industriali.
Boje si ispirava e usava Roland Barthes, Guy Debord ma anche Michail Bachtin e le sue teorie sul carattere dialogico e polifonico della narrazione.
Nel caso Nike come in decine di altri, il lavoro di manager e consulenti è trasformare i prodotti in storie e convincere qualcuno a pagare per sentirsi parte di questa storia.
Già Seth Godin in Tutte le palle del marketing (Sperling & Kupfer, 2006) aveva sottolineato l’efficiacia del meccanismo: infatti allineando “un enunciato su una visione del mondo è facle raccontare una storia”.
Clinton e poi soprattutto Bush hanno costruito la carriera politica sulle tecniche di narrazione delle vicende proprie e del paese. L’apparato militare americano fa un uso massiccio delle sceneggiature scritte da chi lavora a Hollywood per confezionare i videogiochi usati per l’arruolamento e l’addestramento dei soldati da spedire in Iraq o in Afghanistan.
Del resto, lo stesso Berlusconi ha costruito la propria fortuna sulla narrazione continua della propria vita come “storia di successo” da estendere all’intero paese, contrapposta alla presunta “storia cattiva” di un’Italia “nelle mani dei comunisti”.
Ovviamente si tratta di una banalizzazione del concetto di narrazione, di uno svuotamento della forza eversiva delle storie narrate. Scrive Salmon,
Le grandi narrazioni che hanno segnato la storia dell’umanità da Omero a Tolstoj e da Sofocle a Shakespeare, raccontavano miti universali e trasmettevano le lezioni delle generazioni passate, lezioni di saggezza, frutto dell’esperienza accmulata. Lo storytelling percorre il cammino in senso inverso: incolla sulla realtà racconti artificiali, blocca gli scambi, satura lo spazio simbolico di sceneggiati e stories. Non racconta l’esperienza del passato, ma disegna i comportamenti, orienta i flussi di emozioni, sincronizza la loro circolazione. […] Lo storytelling costruisce ingranaggi narrativi seguendo i quali gli individui sono portati a identificarsi in certi modelli e a conformarsi a determinati standard.
Secondo Salmon l’efficacia dello storytelling ha assunto tutta l’attuale forza grazie alla propagazione in rete: i siti istituzionali, ma soprattutto i blog, le webzine sono diventati i venditori ambulanti delle stories: “perché il loro fascino ci spinge a ripeterle”.
Altre annotazioni qui. Magari sul libro ci ritorno quando finisco di leggerlo.
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