Perché ci riguarda più che mai la sua riflessione sulla “mancanza di pensiero”, l’irriflessività che genera il male
Sul numero del New Yorker del 16 febbraio 1963, 60 anni fa, veniva pubblicata la prima parte del reportage di Hannah Arendt dal processo ad Adolf Eichmann a Gerusalemme. Il resto del lavoro venne pubblicato in varie parti nel marzo di quell’anno. Con alcune modifiche, correzioni e qualche aggiunta, il reportage della filosofa uscì nel 1964 in un libro diventato immediatamente un caso di studio, di analisi storica, sociale e psicologica ma anche di numerose polemiche: Eichmann in Jerusalem. A report on the banality of evil. In italiano, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme (Feltrinelli).
Letto, descritto, recensito, citato con precisione ma a volte anche a sproposito – soprattutto l’espressione “banalità del male” è diventata una formula buona per ogni tipo di crimine difficile da spiegare – il reportage di Arendt e le sue riflessioni sono entrati nel dibattito sulla Shoah e le responsabilità per quel che è avvenuto. In particolare ha introdotto la riflessione sulla macchina burocratica dello sterminio e il contributo a essa di ciascun piccolo individuo che si limitava “a fare il proprio dovere”.
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Inutile ripetere che nonostante i limiti, alcuni punti di vista che lei stessa mutò più avanti, l’enorme controversia che suscitò, (in particolare ci furono reazioni rabbiose in molte comunità ebraiche per alcune osservazioni attorno alla “condotta degli ebrei negli anni della soluzione finale” – come Arendt la definisce nell’Appendice, “Le polemiche sul casi Eichmann”) il reportage e le riflessioni di Arendt sul processo di Gerusalemme sono di importanza fondamentale per la storia del Novecento, il nazismo, la Shoah e per la riflessione sul male. Ovviamente andrebbero lette avendo come prospettiva l’intera opera della filosofa.
Indubbiamente affascinante è lo stile di scrittura di Arendt in queste pagine. Esse mantengono il carattere della “presa diretta” sull’evento inaudito di un racconto a più voci di cosa fu l’olocausto, ma l’orchestrazione resta nella sua voce, la voce di una filosofa-reporter.
Nell’ottavo capitolo, I doveri di un cittadino ligio alla legge, scrive Arendt:
“La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente conto che il suo caso era un po’ diverso da quello del soldato che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante l’istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principi dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere. L’affermazione era veramente sorprendente, e anche incomprensibile, poiché l’etica di Kant si fonda soprattutto sulla facoltà di giudizio dell’uomo, facoltà che esclude la cieca obbedienza”.
Il giudice istruttore, ci dice Arendt, non approfondì l’argomento. Il giudice al processo invece chiese chiarimenti a Eichmann.
“E con sorpresa di tutti Eichmann se ne uscì con una definizione più o meno esatta dell’imperativo categorico: «Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali». […] Rispondendo ad altre domande, Eichmann rivelò di aver letto la Critica della Ragion pratica di Kant, e quindi procedette a spiegare che quando era stato incaricato di attuare la soluzione finale aveva smesso di vivere secondo i principi kantiani, e che ne aveva avuto coscienza, e che si era consolato pensando che non era più «padrone delle proprie azioni» che non poteva far nulla «per cambiare le cose». Alla Corte non disse però che in questo periodo «di crimini legalizzati dallo Stato» – così ora lo chiamava – non solo aveva abbandonato la formula kantiana in quanto non più applicabile, ma l’aveva distorta facendola divenire: «agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese», ovvero, come suonava la definizione che dell’«imperativo categorico del Terzo Reich» aveva dato Hans Frank e che lui probabilmente conosceva: «agisci in una maniera che il Führer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe» (Die Technik des States, 1942, pp.15-16). Certo, Kant non si era mai sognato di dire una cosa simile; al contrario, per lui ogni uomo diveniva un legislatore nel momento stesso in cui cominciava ad agire: usando la «ragion pratica» ciascuno trova i principi che potrebbero e dovrebbero essere i principi della legge. Ma è anche vero che l’inconsapevole distorsione di Eichmann era in armonia con quella che lo stesso Eichmann chiamava la teoria di Kant «ad uso privato della povera gente». In questa versione ad uso privato, tutto ciò che restava dello spirito kantiano era che l’uomo deve fare qualcosa di più che obbedire alla legge, deve andare al di là della semplice obbedienza e identificare la propria volontà col principio che sta dietro la legge – la fonte da cui la legge è scaturita. Nella filosofia di Kant questa fonte era la ragion pratica; per Eichmann, era la volontà del Führer. Buona parte della spaventosa precisione con cui fu attuata la soluzione finale (una precisione che l’osservatore comune considera tipicamente tedesca o comunque caratteristica del perfetto burocrate) si può ricondurre alla strana idea, effettivamente molto diffusa in Germania, che essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire, ma anche agire come se fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce. Da qui la convinzione che occorre fare anche di più di ciò che impone il dovere.” (Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, 1992 [1964], pp. 142-144).
Elisabeth Young-Bruehl nel suo libro, Hannah Arendt: perché ci riguarda (Einaudi, 2009, edizione originale, 2006), ci avverte che è importante decostruire ed esplorare l’espressione “banalità del male”; va usata come stimolo a pensare, adoperata come una lente. Quel che scopriamo ci porta dritti al cuore del pensiero di Arendt che, appunto, ci riguarda ancora oggi.
Perché, scrive Young-Bruehl, “Ciò che cercava di catturare con l’espressione «banalità del male» era quel genere di male che risulta dalla particolare capacità di smettere di pensare, insinuata in individui come Eichmann, la cui irriflessività venne favorita perché, attorno a lui, tutti accettavano senza discutere l’ordine di sterminio di Hitler e la visione del glorioso Reich millenario. Ma il giudizio di Arendt aveva un’eco più profonda visto che da anni lei usava la parola thoughtless.”
L’aveva usata nel 1958 in The Human Condition (in italiano Vita activa. La condizione umana, Bompiani) quando scrisse che la “mancanza di pensiero – l’incurante superficialità o irrimediabile confusione o la ripetizione compiacente di «verità» diventate banali e vuote – mi sembra tra le principali caratteristiche del nostro tempo. Quello che io propongo perciò, è molto semplice: niente di più che pensare a ciò che facciamo”. [p. 38 dell’edizione Bompiani 2019].
Qui la prima puntata dei reportage di Hannh Arendt da Gerusalemme, che il New Yorker ha ripubblicato sul suo sito.
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