Calciatori, Louis Schanker

Filosofia del calcio: due libri (e altro) da leggere durante i mondiali in Qatar

Perché guardare le partite della Coppa del mondo Fifa 2022 ci renderà meno felici e ci farà sentire in colpa (ma non riusciremo a farne a meno). Consigli di lettura

Amo in modo irrazionale il calcio. Anzi. Io amo soprattutto l’Inter. In modo, appunto, irrazionale e sconfinato. 

(Se vi annoia la mia prosa sull’idea di calcio e il resto, saltate i primi paragrafi e andate subito all’elenco di libri e di letture che ho promesso nel titolo).

Gli «azzurri», che noia

La «nazionale azzurra» mi ha scaldato fino ai mondiali del ’90. Poi basta. Tutti abbiamo amato ingenuamente la nazionale campione del mondo nell”82 – sebbene quell’amore non fosse, nemmeno allora, lontanamente paragonabile a quello per l’Inter. 

Il passaggio critico fu il 1994, il mondiale negli Stati Uniti. Non mi piaceva, ovviamente, l’identificazione che, attraverso il Ct Sacchi, si tentò di fare fra quella squadra e il presidente del consiglio di allora (nonché proprietario di Tv e giornali, palazzinaro, fondatore vero del populismo di destra contemporaneo, il politico che ha riportato a galla i neofascisti del Msi; e, come se non bastasse, il padrone del Milan, che, purtroppo vinse parecchio, soprattutto in Europa, ma vabbe’). 

Il Ct Roberto Mancini è riuscito  a suscitare di nuovo un po’ del mio interesse per la nazionale, ma poi l’eliminazione dai mondiali in Qatar ha tolto di mezzo il problema dell’atteggiamento verso gli azzurri. Meglio così. Perché il nuovo governo di (estrema) destra avrebbe sicuramente approfittato di qualsiasi buona prestazione della squadra per titillare in modo rozzo la retorica della «nazione» unita dietro «i suoi eroi». E assurdità del genere.

Non c’è solo l’Inter

Non è vero che per me ci sia «solo l’Inter» nel calcio. Perché, più in generale, il calcio è certamente uno dei percorsi di senso della mia vita. Peraltro, nulla di originale, un’affermazione che sottoscriverebbero miliardi di persone nel mondo.

Sulla sua parte di senso che il calcio attribuisce alla vita da una vita cerco di ragionare.

Perché il calcio è così importante per tanti di noi? («Noi» che lascia pensare all’idea inspiegabile che mi senta parte di una specie di «comunità» delle persone che amano il calcio, idea romantica e certamente ingiustificata. Non siamo una comunità, anche perché sarebbe una comunità piena di persone disprezzabili, che so: un violento della curva ultrà, magari con intrecci di relazioni con la malavita, oppure un capomafia, un dittatore sanguinario e così via).

Il senso del calcio per la vita

Da anni vorrei spiegarmi, o almeno mettere in fila un po’ di osservazioni e descrizioni dell’esperienza di guardare, parlare, tifare, soffrire (anche piangere di rabbia, disperazione e gioia) con il calcio. In parte ci sono gli affetti famigliari, in particolare il rapporto con mio padre, il ricordo della sua vita, che ho provato a ricostruire attraverso un lavoro di ricerca che mi ha portato, quarant’anni dopo la fine della sua vita, ai racconti autobiografici preparati per Anghiari. (Uno alla volta li sto -> pubblicando anche su questo blog ). 

Ma ovviamente c’è molto altro. Per esempio per l’ineffabile fascino dello stadio pieno, della paura della sconfitta e la felicità della vittoria, l’esaltazione del gol segnato dall’Inter e il gelo di quello subito. Le bandiere, l’abbraccio al vicino di gradinata sconosciuto. Prima o poi, dovrò affrontare meglio tutto questo fascio emotivo, smontarlo, descriverlo e capirlo.

L’orrore della Coppa del mondo in Qatar

Molti di coloro che amano il calcio sono davvero, sinceramente, disgustati dai mondiali in Qatar. Soprattutto per i diritti umani calpestati.

Non che non si sapesse quanto il calcio sia un business planetario, pronto a spazzare via le idee romantiche e le nostre ingenue passioni, compreso l’orrore politico per i compromessi del mondo pallonaro con regimi autoritari e l’uso propagandistico che questi hanno sempre fatto dello sport. 

Basti pensare, per esempio, allo scempio dei mondiali del 1978 nell’Argentina dei militari fascisti, regime terribile e omicida. Si giocò in Argentina e vinse l’Argentina, fra spudorati favoritismi, combine e tripudio di folle e la seconda ingiusta (ma quando il calcio è «giusto»?) sconfitta in finale per -> la grande Olanda (allora già senza Johan Cruijff).

Articoli e servizi giornalistici sui mondiali 2022:

-> «L’orizzonte dei grandi eventi», di Luca Pisapia su Jacobin Italia. «La Coppa del Mondo di Qatar 2022 non è una novità di cui avere paura. Qatar 2022 è la sintesi della storia di centocinquanta anni di calcio. Di questo dovremo avere terrore»

-Le -> corrispondenze di Pete Pattisson del Guardian, sulla violazione dei diritti umani, soprattutto dei lavoratori, ma anche su molto altro relativo a Qatar 2022. 

-Su Micromega, l’articolo di Simone Morganti, -> «L’ombra dell’omofobia sui mondiali in Qatar»

 -L’Economist la pensa diversamente da chi critica radicalmente la scelta Fifa di affidare l’organizzazione all’Emirato. In un’editoriale, «In defence of Qatar’s hosting of the World Cup», si sostiene che il Qatar sia un luogo migliore per un grande evento sportivo di altri – come la Cina e la Russia – dove si sono organizzati recentemente Olimpiadi e mondiali di calcio.

Le critiche al Qatar, scrive l’Economist, nel migliore dei casi non sembrano in grado di distinguere fra regimi veramente ripugnanti e regimi soltanto con dei «difetti» (merely flawed ones); mentre nel peggiore dei casi, tali critiche mostrano un pregiudizio cieco. Il realismo (discutibile) del settimanale britannico arriva a dire che se la Fifa non vuole assegnare il torneo solo a Finlandia, Norvegia e Svezia, sarà difficile trovare ogni quattro anni un paese «senza colpe».Se volete leggere l’articolo lo trovate -> qui (solo per gli abbonati)

-Sul Qatar e l’uso che sta facendo del calcio per trovare una collocazione rilevante sulla scena mondiale, si può leggere il servizio di Die Zeit tradotto da Internazionale 18/24 novembre 2022.

Internazionale ospita anche due opinioni a confronto, sempre dal tedesco Die Zeit: una consiglia di non seguire le partite per impedire che l’Emirato usi il calcio per migliorare la sua immagine nel mondo. L’altro sostiene invece che a questo punto sia troppo tardi per tornare indietro. Si guardino pure le partite ma la stampa deve raccontare l’evento mostrando i lati oscuri del paese e opponendosi a ogni tentativo di censura.

Sempre su Jacobin -> «Il ribelle del pallone», di Will Magee, «Oltre a sfidare la dittatura brasiliana sperimentando la democrazia diretta nel calcio, Sócrates e i suoi compagni dimostrarono che col rifiuto dell’individualismo a favore della politica collettiva si può vincere».

Accantoniamo ora il ragionamento sull’etica del guardare le partite di questa coppa del mondo del 2022 in Qatar (ricordiamoci, come ha suggerito l’Economist che la precedente si giocò in Russia, quindi anche in quel caso l’etica avrebbe dovuto suggerire un boicottaggio). 

Occupiamoci di libri per affrontare questo mese e mezzo senza la serie A e senza la Premier League: letture filosofiche attorno alla questione calcio.

I libri

Il primo è Bernhard Welte, Filosofia del calcio (Morcelliana, 2021). Contiene due saggi del filosofo tedesco (1906-1983, teologo e fra i più importanti filosofi della religione del XX secolo, allievo e amico di Heidegger), tradotti da Oreste Tolone. Qui siamo a un livello davvero alto. Per farla breve vi propongo la quarta di copertina:

«Che cosa fa del calcio un gioco, degno di riflessione, e non soltanto uno sport, segno di una società di massa? Bernhard Welte, nei due saggi tradotti (del 1978 e del 1982), sorprende nel gioco del calcio, quale insieme di regole e disciplina, una razionalità filosofica. O, come ben evidenzia il curatore, il significato del pallone non solo come sfera, emblema religioso e metafisico della perfezione, ma anche come veicolo di una dimensione antropologica ulteriore. Il pallone mette in gioco una finalità – la vittoria – trasformando i nemici in avversari, e rende così possibile per l’uomo ciò che nella realtà gli pare negato dal determinismo. Di più, il pallone, insieme a norme e leggi del tutto speciali, mette in campo la libertà dell’uomo, quella che può fare del suo ideale una realizzazione compiuta nella forma di una convivenza possibile.»

Aggiungo poi la segnalazione di un lungo articolo-recensione al libro di Welte, «Cosa accade quando un teologo s’interroga sul calcio?» scritto da Francesco Valerio Tommasi e pubblicato sul bel sito dedicato allo sport -> «Contrasti» (ecco, date un’occhiata a questo sito durante il mondiale perché credo ci riserverà qualche chiave di lettura meritevole di attenzione). 

Scrive Tommasi:

«Cosa sostiene allora Welte, da parte sua, di ‘questo affascinante ed enigmatico fenomeno?’ (p. 32). Nel primo dei due saggi, La partita come simbolo della vita. Riflessioni filosofico-teologiche sul gioco del calcio, egli propone il calcio come un archetipo della lotta che l’essere umano intraprende nella sua vita, e che tuttavia è regolato ‘da una grande regola gioco’: nell’essere quindi immagine di conflitto ricondotto entro limiti accettabili si trova, per Welte, la vera forza del calcio: ‘il gioco ben regolamentato della rivalità è l’auspicata e piacevole forma del gioco della vita – sebbene nella vita ciò sia piuttosto raro. Il gioco del calcio indica questo’ (p. 39).»

E ancora:

«Il calcio quindi è non solo metafora della realtà della vita e della sua lotta, ma metafora della vita e della lotta ideali, come vorremmo che fossero: ‘non viene giocata semplicemente l’immagine mitico-archetipica della vita collettiva degli uomini così com’è, bensì l’immagine della vita come dovrebbe essere. Viene progettata un’immagine ideale o esemplare dei comportamenti umani. Potrebbe essere un disegno proveniente dalla profondità arcaica dell’uomo, che certamente tiene conto della realtà, ma allo stesso tempo guarda al di là di essa, prospettando così un criterio per gli avvenimenti reali della vita, che non è desunto dalla realtà e che essa tuttavia reclama’ (pp. 57-8).»

«Perciò il calcio è per Welte addirittura figura escatologica, ‘anticipazione della vita sperata’, mondo ideale in cui l’avversario non è veramente tale, ma piuttosto compagno di gioco. E proprio sul concetto di gioco insiste invece il secondo saggio, L’esistenza nel simbolo del gioco, che ancora una volta si apre con la contrapposizione tra la serietà delle occupazioni e la liberazione apportata dall’ambito ludico, che costituisce un ‘simbolo’, privo però del peso e della fatica, della vita.»

Il secondo libro è stato scritto molti anni dopo, è uscito nel 2017. È di Simon Critchley e si intitola A cosa pensiamo quando pensiamo al calcio (traduzione Italiana Einaudi, 2021). Critchley è inglese e si occupa di filosofia e di divulgazione della filosofia (sua per esempio una serie di podcast nei quali guida alla lettura di Essere e tempo di Martin Heidegger: la guida che, credo, mi abbia portato finora un po’ più vicino a quel libro di qualsiasi altra cosa abbia letto o ascoltato).

Ebbene Critchley è anche appassionato e tifoso di calcio (del Liverpool). In questo What We Think About When We Think About Soccer dovrebbe dirci, come recita la sibillina quarta di Einaudi, che «Sposando Gadamer e Zidane, Sartre e Mourinho, ci aiuta a capire come possano ventidue ragazzi in pantaloncini che inseguono una sfera di cuoio toccare cosí a fondo il cuore di milioni di persone».

Visto che volevo leggere il libro di Critchley, mi sono letto qualche mese fa una recensione di Avishai Margalit, anch’egli filosofo e appassionato di calcio (non dice se è anche tifoso). Ebbene Margalit non è proprio entusiasta del libro di Critchley. A partire dalla critica del titolo che porterebbe fuori strada il lettore: perché non è di «noi» che parla la voce di Critchley, ma è di se stesso, visto che nessuno sembra pensarla come lui (così Margalit) e soprattutto che la sua è la descrizione di un‘esperienza in prima persona di un tifoso. Il che, sempre secondo Margalit, gli permette di fare associazioni libere e di tenere insieme alcuni ragionamenti che sembrano «tradotti male da qualche libro di un filosofo francese», categoria, quest’ultima dei filosofi francesi (quindi i tremendi «continentali»), che Margalit non sembra apprezzare. Critchley vorrebbe una fenomenologia del calcio, e una poesia, insieme. Margalit scrive di cocktail di Heidegger, Klopp (il coach del Liverpool), Hegel e chissà chi (credo anche Sartre e Gadamer, appunto). 

Vi invito a -> leggere qualche pagina dal primo capitolo – di –A cosa pensiamo quando pensiamo al calcio (dal sito Einaudi). Vi segnalo che il capitolo si intitola: Socialismo.

Critchley discorre del suo libro

Pasolini parla di calcio con Enzo Biagi

A presto con altro, se in queste settimane riesco a distrarmi dalle partite 😀

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