
Nel city council di Dublino qualcuno ha proposto di rimpatriare il corpo dello scrittore. Solo una nuova tourist trap, dice Mark O’Connell.
Girare per Dublino dopo aver letto un libro di James Joyce, in particolare “Ulisse”, è un’esperienza di riconoscimento di luoghi e atmosfere e di suggestioni. Lo sanno tutti i turisti e visitatori della città che hanno usato come guida particolare proprio il romanzo di uno degli irlandesi più famosi.
Eppure Joyce aveva un rapporto controverso con la sua Irlanda e la sua città. Tanto è vero che se ne andò presto. Già negli anni ’20. Perché l’Irlanda era spiritualmente povera, oppressiva nei confronti di chiunque pensasse in modo indipendente e andasse oltre il bigottismo parrocchiale. Si esiliò da solo, a Parigi e Trieste e Zurigo.
È d’altra parte vero che molti critici e storici della letteratura fanno notare che anche da lontano, fu sempre e ancora l’Irlanda il vero soggetto della sua scrittura, anche se i temi di Joyce sono universali.
Quando verso la fine della sua vita, ci ricorda lo scrittore Mark O’Connell sul “Guardian” il 23 ottobre 2019, chiesero a Joyce se non pensasse di poter tornare a Dublino, James rispose: “Ma me ne sono mai andato?”.
La natura controversa del rapporto fra Joyce e la “sua” città è stata riportata all’attenzione recentemente quando due consiglieri municipali di Dublino hanno proposto di riportare i resti di Joyce – oggi al Friedhof Fluntern di Zurigo – in città in tempo per celebrare il centenario dell’uscita di “Ulisse” nel 2022.
Pare che James non abbia mai scritto né detto da nessuna parte che volesse essere sepolto in Irlanda. La vedova Nora, invece, pare che negli anni ’40 avesse espresso il desiderio di riportare le spoglie del marito a Dublino.
È improbabile che a Zurigo rinuncino alla tomba di Joyce, un discreto polo di attrazione di turismo letterario. Ma nel caso la municipalità di Dublino e il governo irlandese dovessero provarci e riuscirci, dice O’Connell, la sepoltura dell’autore diventerebbe soltanto una nuova trappola per turisti in questa città che vorrebbe continuare a presentarsi come una Mecca letteraria ma che, invece, è sempre più cara per i suoi abitanti, sempre più rifugio di aziende che non intendono pagare le tasse che dovrebbero, e sempre più piena di homeless.
Dice O’Connell che Dublino sta diventando deserto (lui scrive “wasteland”) culturale dove “gli spazi creativi chiudono per lasciare il posto a nuovi hotel, dove gli artisti non possono permettersi di vivere a causa di un mercato degli affitti brutale e senza nessuna regolamentazione”.
Se ancora fosse vivo, aggiunge, oggi Joyce se ne andrebbe comunque da Dublino, perché non potrebbe permettersi di viverci.
Dublino è piena di richiami all’opera di Joyce. Per chi tiene alla sua opera e l’ha letta e continua e leggerla, i legami sono fortissimi, senza necessità di avere anche il corpo in un cimitero della città – probabilmente il Glasnevin Cemetery. Chi legge e ha a cuore il lavoro di Joyce – e non si preoccupa dei soldi che il turismo legato a Joyce porta – sa che Dublino è inseparabile da lui, ci ricorda ancora O’Connell.
Il quale quasi ogni giorno entra ed esce dalla National Library vivendo un piccolo brivido ricordando che (in “Ulisse”, episodio 9) il 16 giugno 1904 Stephen Dedalus e Leopold Bloom sono passati da questa porta senza riconoscersi. Oppure, sui quays passa, insieme al figlio che accompagna verso la scuola, davanti alla casa georgiana oggi in stato di abbandono, come molti altri edifici di questa città nel pieno di una housing crisis, dove Joyce ambientò il suo racconto “The Dead”, l’ultimo di “Dubliners”.
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