Joyce Carol Oates su un romanzo di idee, globalizzazione e alienazione e narratori (forse) inaffidabili
Fra le letture “brevi” che preferisco ci sono le recensioni di libri – possibilmente un grande libro – scritte da uno scrittore – possibilmente un grande scrittore.
Qualche giorno fa mi sono imbattuto nella lettura che Joyce Carol Oates ha fatto di In the Light of What We Know, romanzo di Zia Haider Rahman, sulla New York Review of Books (23 ottobre 2014).

Recensione modello
Zia Haider Rahman è uno scrittore di nazionalità britannica ma originario del Bangladesh. Il suo libro – e la sua personalità, credo – è un esempio molto significativo di scrittura e di vita del XXI secolo mondializzato.
E Joyce Carol Oates nella sua recensione ci presenta, in un equilibrio mirabile, sia le caratteristiche artistico-formali del romanzo, sia quelle politiche e storico-sociali.
Un romanzo lungo, quasi 500 pagine, per raccontare una storia complessa, che ha molti legami con la biografia di Zia Haider Rahman, autore nato nel 1971.
Storia complessa quella di Zachar, un prodigio della matematica – nato in Bangladesh dopo lo stupro della madre da parte di un soldato pakistano – che arriva in Inghilterra, a Oxford nel 1987 per studiare e che diventa un trader nel mercato finanziario.
Niente è certo, in questo romanzo postmoderno
La sua storia, anzi i frammenti di storie che lo coinvolgono, riguardano soprattutto lo scontro fra la sua identità molteplice, le sue ambizioni e la resistenza della società e cultura delle classi elevate inglesi, rappresentati dalla donna che ama e con la quale non riesce mai completamente e vivere fino in fondo in modo sereno.
Ma questa è anche una storia che implica il coinvolgimento americano nel conflitto in Afghanistan, con passaggi da romanzo di spionaggio, e in generale, le relazioni dell’occidente con i propri cittadini immigrati e con il mondo mussulmano, i conflitti internazionali, la globalizzazione.
Solo che, ci dice Joyce Carol Oates, niente è certo in questo romanzo, abbiamo dubbi sull’affidabilità del racconto spezzettato che ne fa il protagonista Zachar al suo (quasi) amico – anch’egli residente a Londra, benestante di origini pakistane, che è poi colui che lo riporta a noi lettori: e anche di questo narratore primario non è detto che ci si possa fidare fino in fondo.
Insomma, come ci viene suggerito dalla finezza della nostra scrittrice-lettrice, è una narrazione postmoderna, costruita come un alveare, piena di avventure ma anche di pensieri, al punto che la Oates definisce In the Light of What We Know un “romanzo di idee, un compendio di epifanie, paradossi, ambiguità, che deve essere letto lentamente e meditato”.

Conrad, Scott Fitzgerald, Sebald
Ma Joyce Carol Oates scrive anche di un romanzo con echi, possiamo intuirlo da quanto detto finora, che richiamano Cuore di tenebra di Joseph Conrad ma, più sorprendentemente anche Il Grande Gatsby di Francis Scott Fitzgerald. E ancora, le indagini sulla dislocazione e l’analisi esistenziale di Graham Greene e di W.G. Sebald.
È un romanzo di grande grande ambizione, scrive la Oates. Con citazioni da numerosissimi scrittori: W.G. Sebald, Simone Weil, Joseph Conrad, Herman Melville, T.S. Eliot, Cesare Pavese, Sigmund Freud, V.S. Naipaul, Umberto Eco, Thomas Mann, solo per citarne alcuni dal lungo elenco che fa la nostra scritrice-lettrice.
Zia Haider Rahman ha lavorato in banche di investimento a Wall Street e poi come avvocato in organizzazioni che difendono i diritti umani nelle aree calde del mondo: il suo romanzo, dice la Oates, è pieno di tutto ciò che è quasi inesprimibile nelle relazioni umane e di quanto è difficile da afferrare nelle relazioni internazionali.
Infine, il libro si chiude con una fotografia che ritrae il matematico e filosofo Kurt Gödel insieme a Albert Einstein a Princeton negli anni ’50, anche in questo caso un richiamo allo stile del memoir-fiction di W.G. Sebald.
Non mi risulta sia stato ancora tradotto in italiano. Speriamo qualche editore lo compri. Lo inserirei volentieri fra i libri per leggere il XXI secolo.
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