La felice scoperta di un libro non cercato, ma che mi è stato regalato, di un’autrice che ignoravo: Dolores Prato. Un titolo un po’ strano, un po’sgrammaticato: Giù la piazza non c’è nessuno. Letto quasi un mese fa, lasciato un po’ sedimentare e, ripreso in mano oggi, nonostante le sue 700 pagine, per tentare di capire perché mi ha così coinvolto.
Prima di tutto mi ha colpito la particolare storia editoriale. Un vero caso letterario. È stato scritto tra il 1973 e 79, da una Prato esordiente allora ottantenne, ma ridotto da Natalia Ginzburg ad un terzo per la pubblicazione nel 1980 presso Einaudi: da 1500 cartelle a 300 pagine.
Il “ridotto libro” aveva molto turbato l’autrice che novantenne ha riscritto sotto dettatura questa edizione di 700 pagine, pubblicata postuma con l’editing di Giorgio Zampa, autorevole critico, che conosciamo come curatore di Montale.
E la prima cosa che colpisce è la freschezza straordinaria di una scrittura che fai fatica ad attribuire ad una novantenne.
E poi è difficile anche definire la tipologia di questo libro, che sulla copertina è definito romanzo, ma che non ha proprio nulla del romanzesco, piuttosto un’autobiografia, ma di un periodo limitato di una vita: l’infanzia di Dolores trascorsa a Treja, una cittadina in provincia di Macerata.
Romanzo forse per l’arbitrarietà dei ricordi, mi domando?
E ancora, dopo che hai letto il libro, ti viene voglia di partire e andare a Treja, che forse è la vera protagonista del libro e che la scrittrice fa rivivere in tutti i suoi particolari e in tutti o quasi i suoi abitanti.
Treja fu il mio spazio… terra del cuore e del sogno… ci stetti poco, l’infanzia l’età delle carezze non me ne fece
Quindi, se Dolores è nata nel 1892, il “romanzo” diventa uno spaccato primonovecentesco della provincia postunitaria, in un’Italia centrale, uscita da poco dallo Stato della Chiesa, prima della prima guerra mondiale.
Così scriveva di lei Giorgio Zampa nel 1983, in occasione della morte
Aveva la perentorietà, che poteva diventare asprezza, di chi non accetta le leggi usuali della vita, i compromessi, le piccole e grandi viltà; aborriva le espressioni pietose, le parole di compassione. A novant’anni, quando potei frequentarla, era irriducibile, temeraria, esigentissima, avversa a ogni forma di prevaricazione – intellettuale, politica, sociale, religiosa – da qualsiasi parte venisse: ma dolcissima in certi abbandoni che la facevano apparire senza età. Disegnava piani come se disponesse di un futuro illimitato.
Sarebbe interessante raccontare alcuni aspetti della sua vita, ma da almeno uno non si può prescindere, per entrare dentro il libro e cioè sottolineare come la sua infanzia sia stata profondamente segnata dall’abbandono.
La breve infanzia è tanto lunga mentre la viviamo che i suoi piccoli scalini sono epoche; le prime confuse tra realtà e fantasia sono una specie di preistoria mitologica…
Questo primo pezzetto di mondo immagazzinato dalla mia memoria lo vedo come adesso vedo la mia mano che scrive…
L’infanzia ci guarda da un buco. Non da un buco con le serrature, di lì ci guardano i grandi, da un buco che trasforma come quello nel portone del Priorato…e adesso per concludere guardo le cose di allora, un po’ da quel buco, un po’ dal disincanto.
…l’infanzia, la sola età in cui l’inconscio affiora senza ostacoli. L’inconscio che sa quel che non sapremo mai, l’inconscio che, se a lui ci abbandoniamo, ci fa divinatori, mi parlava ma io non lo capivo.
Tiziano Scarpa, anche se l’infanzia è in primo piano, afferma tuttavia che è il libro di una vita. “Dentro un unico romanzo tutto quanto c’è da dire sull’essere passati per questo mondo”.
Per il mancato riconoscimento del padre e l’abbandono della madre, a cinque anni viene trasferita a casa di un vecchio zio prete e della sorella, una vecchia zitella, a Treja dove vivrà fino a diciotto anni: Dolores creatura reietta venuta al mondo contro il volere del mondo
E io che fui? una bambina un po’ dolorosa, un po’ curiosa, potrebbe dire chi la guarda dal buco del Portone del Priorato; una bastarda dirà chi la guarda dal disincanto. Bastarda integrale, dico io…Spuntata da un ramo di antichissima nobiltà, innestato con un poderoso ramo israelita, io che sono?…Quel bocciolo di melanconia che era dentro di me sin da piccina, spuntava dal pluriminnenario dolore ebraico…un pudding di elementi ereditari ed occasionali messi a lievitare nella piccola madia della madre dove avviene l’involontaria confezione.
E la madre, la svergognata, più volte nominata e disprezzata: “la zia si era presa la simpatia del paese per aver preso me…per aiutare quella disgraziata che mi aveva deposta lì come una valigia a cui si cambia deposito”
Tra i neonati ripudiati, un biberon il mio elemento materno
Madre è realtà fisiologica e affettiva; io ebbi lo stridio di una tastiera di elementi materni, tutti discordi tra loro. La parola ( madre ) trionfò sui libri di lettura della scuola, uno smammolato termine letterario. Meglio le “guerre puniche” e l’inno di Garibaldi.
Se si stabilizzò uno squilibrio in me, non fu per la vita che feci fuori della linea normale, non fu per la lontananza dai genitori, fu per la carenza di calore del corpo umano…nello struggente desiderio di essere abbracciata, nel non essere stata né accarezzata tanto meno baciata. Non sono stata covata. La mancanza di quel calore è la ragione di tutto.
Intorno a lei vivono tra i tantissimi abitanti di Treja soprattutto quegli zii che l’hanno generosamente ospitata: il sorridente Zizì, mezzo prete mezzo pittore, “dotto, enciclopedico, tollerante allegro, festoso… prete lo era e almeno il cappello doveva portarlo”.
E la zia che malamente si era adattata all’ufficio materno
la vecchia zia che avrei dovuto chiamare mamma e che non chiamavo in nessun modo… non ci siamo mai accarezzate, neppure un accenno, ma ,mentre lei invecchiava e io mi allontanavo dall’infanzia mi amò come nessuna: ora sono vecchia io e amo lei che non sopportavo in vita.
La zia che leggeva sempre…forse non si accorgeva nemmeno che fossi lì… non aveva tenerezza per i bambini… Madre è quella che smette di leggere per rispondere ai perché, madre è unicità, sicurezza e appoggio fisiologico
Ma nella casa degli zii c’era Scolastica, una vecchia donna di servizio, tutto sommato la mia ottuagenaria bambinaia da lei non mi aspettavo che le scantafavole…Dì, dì, dì. Si accingeva a cominciare, appoggiavo subito le braccia sulle sue ginocchia. C’era una volta..un gancio che mi sollevava e mi deponeva in un mondo di incanti e sortilegi.
E poi c’era il cane Sile che “a me pareva grosso come un asino, era solo un cane da caccia..poi scomparve, si dileguò come Scolastica”.
Il mondo veniva verso di me, sfogliandosi come un libro meraviglioso. Qualcuno dice che la meraviglia appartiene agli ignoranti: io benedico la mia ignoranza che continua a rifornirmi di stupore; forse è per magia d’ignoranza che si intravede l’anima delle cose.
Ho già scritto troppo, ma sono certa di non aver detto nulla, per far capire la struttura complessa, monumentale di questo struggente libro di memorie: Gadda avrebbe detto che procede per “tratti”, Dolores stessa afferma che procede per “lasse”, per indicare la discontinuità della narrazione, che avanza per illuminazioni improvvise, per epifanie. A più di 80 anni la bambina dolorosa racconta, descrive, ricorda– in un romanzo senza trama – con una ricerca quasi ossessiva delle parole: tante le immagini di porte, cancelli, sbarre che caratterizzano il fluire della memoria.
Dal mio racconto potrebbe sembrare un libro piagnucoloso, un po’ melodrammatico ed invece nulla di tutto questo. Le mie continue citazioni per far parlare Dolores direttamente, ma tutto questo in un libro che sfugge completamente dai canoni narrativi tradizionali, da una narrazione lineare, un libro di memorie di grande originalità “di una scrittrice onirica e frammentaria”
Le emozioni e le riflessioni scaturiscono qua e là in mezzo a descrizioni lunghissime, dettagliate di una miriade di oggetti e persone, da un’osservazione minuta della realtà, da un Virtuosismo descrittivo insuperabile..
Le persone non mi parlavano, ma le cose sì; erano una folla, riempivano la casa
Monica Farnetti, che ha inserito un suo scritto su Dolores Prato in “Tutte signore di mio gusto” sottolinea giustamente che, se la materia specifica della narrativa è il tempo, in questo romanzo è la categoria dello spazio quella che emerge” più che romanzo autobiografico atlante delle emozioni, dettagliatissima cartografia sentimentale di un luogo mitico: Treja “, dove appunto Dolores ha vissuto dai 5 ai 18 anni.
Ciò che più rende originale e apprezzabile il libro è la prosa colloquiale, la freschezza,la naturalezza, la nitidezza, la rapidità,l a tensione lirica della lingua che ha i colori della lingua parlata.
Giorgio Zampa parla di “gravità soave” e di “leggerezza grave” di una lingua che ha un “portentoso peso specifico” Sin dal titolo si coglie come la lingua sia nutrita di colori popolari. In questa sovrabbondanza di parole, con scelte lessicali particolari, comunque essenziali e necessarie, non si deve parlare di una sola lingua, perchè c’è il dialetto di Treja, contrapposto al linguaggio imbalsamato imparato poi dai libri e in collegio. E poi la lingua di casa degli zii: Per me sulla parlata c’era un altro confine, una vallata profonda ed era la nostra casa dove si parlava così bene come in nessun altra casa La distanza tra dialetto e lingua degli zii per pronuncia, scelta dei vocaboli..eravamo quelli della Repubblica di San Marino: uno stato a parte.
Dolores era per una lingua diversa da quella convenzionale di una classe medioalta che dopo l’unità prendeva le distanze dal dialetto ed evitava il parlare comune. E’ infatti per una lingua che identifica le parole con le cose…
Nella sua eccentricità e irregolarità, diceva di sè “Io salto i verbi come se qualcuno mi corresse dietro, i miei passaggi sono ponti levatoi mai abbassati”
E’ proprio quell’infanzia buia, inquieta che diventa forza creatrice e fa di lei una grande scrittrice del 900 italiano.
Concludo con le parole di Elena Lowental che nel recensire il libro afferma che è “uno dei libri più belli che abbia mai letto, un libro di una bellezza che fa male. A scoprirlo ci si sente in colpa per non averlo scoperto prima.”
Sarei felice di confrontarmi con eventuali lettori di questo libro
Dolores Prato, Giù la piazza non c’è nessuno, QUODLIBET, 2009, pp.702
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