
Nel suo romanzo-memoir-taccuino di viaggio, I Vagabondi (Bompiani), Olga Tokarczuk, premio Nobel per la letteratura 2018, scrive fra l’altro di Eryk, un marinaio solitario, emigrato da un paese comunista, che gira il mondo diventando baleniere: fino a quando, a causa del capitano della nave che contrabbanda droga e tabacco, finisce in carcere in un paese asiatico.
Nella biblioteca del carcere trova un solo libro in una lingua che sia in grado di leggere, è Moby Dick. Per tre anni Eryk legge Moby Dick. I suoi compagni di cella, un marinaio portoghese e uno delle Azzorre, lo osservano, dapprima curiosi, poi interessati, infine si fanno catturare dalle pagine di Melville. Eryk, racconta a memoria interi capitoli del romanzo e dopo un po’ comincia a leggere ad alta voce alcune pagine, fino a quando tutti e tre finiscono come in una rete magica nella quale imparano e usano il linguaggio dei marinai del Pequod, fra loro, spesso rivolgendosi alle guardie con espressioni che queste non capiscono, prese dai dialoghi di Moby Dick. Soprattutto, parlano del loro futuro. Una volta fuori dalla prigione come si sarebbero guadagnati da vivere?
“Discutevano delle soluzioni migliori, ma a dire il vero giravano sempre attorno allo stesso tema, già corrotti (anche se non ne erano consapevoli) infettati; agitati nel profondo dalla semplice possibilità dell’esistenza di qualcosa di simile alla balena bianca”.
Il linguaggio dei tre carcerati, modificato dal romanzo della balena bianca, trasforma il loro universo semantico, lessicale ed emotivo. La cella di Eryk e dei suoi amici non è esattamente un “gruppo di lettura”, almeno per come li conosciamo e immaginiamo noi, eppure qualcosa è accaduto.
Queste pagine ci aiutano a fare una cosa: a guardare attraverso gli strati di senso che l’espressione “gruppo di lettura” richiama in noi, per coglierne una sorta di essenza: un’azione, un uso: il lettore interpreta il libro e poi interpreta quello che per lui quel libro significa, se ne appropria, lo trasforma in discorso, in atti che gli altri lettori che hanno condiviso la lettura sono (quasi sempre) in grado di capire. Ci interessa il discorso, il dialogo, la discussione: sono relazioni sociali; relazioni generate dalla lettura, che intrecciandosi diventano il nucleo di una entità sociale. Un tessuto per mantenere la metafora dell’intreccio che è come un nuovo tessuto.
Il gruppo di lettura potremmo anche chiamarlo “soggetto relazionale” seguendo un filone della sociologia contemporanea che si occupa dei cosiddetti “beni relazionali”; senza entrare nel merito, qui ci interessa questa definizione generale: la relazione sociale è una realtà propria (sui generis) in quanto ha poteri causali e qualità proprie. Questa relazionalità (la relazione come entità reale) è activity-dependent, cioè dipende dalle azioni dei soggetti, ma ha una sua struttura che si evidenzia nel potere che esercita nel retroagire sui termini della relazione stessa. [Pierpaolo Donati, Scoprire i beni relazionali, Rubettino].
Un’altra definizione
Tokarczuk e Melville e Eryk ci portano dunque a considerare un’altra definizione di “gruppo di lettura”, rispetto a quella comune che usiamo abitualmente. Il gruppo di lettura come una “scena teatrale” dove si rappresenta una commedia umana nella quale noi lettori e le nostre letture personali e idiosincratiche siamo i protagonisti, insieme al libro e al suo autore. La “scena teatrale” aiuta a ricordarci che il gruppo di lettura o qualsiasi cosa gli assomigli merita un’attenzione alla relazione sociale che cambia in buona misura le questioni di cui ci occupiamo rispetto a quando ci si occupa solo di lettura. Ovviamente ci torneremo.
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