
Lo sappiamo: parliamo di noi quando parliamo dei libri che leggiamo. Non intendo dire soltanto che nel discorso su ciò che si legge ci sono i nostri pensieri, e le nostre interpretazioni intrecciate alle parole dell’autore, il che suona come ovvio.
Intendo invece dire che nelle nostre parole, quando condividiamo con altri le letture, ci sono veri e propri recuperi autobiografici, diretti o indiretti; ci sono pezzi di racconti della nostra vita. Ma anche idee “normative” su come vorremmo che fosse stato o che fosse in futuro, il nostro comportamento e su come desidereremmo che gli altri, le persone che affianchiamo nella vita, agissero.
Certo, per arrivare a questi frammenti autobiografici è necessario scavare nei ricordi e lasciare che le parole dei lettori, le nostre parole, trovino spazi agevoli, comodi e sicuri e si esprimano. Vale a dire: non sempre le parole che diciamo a proposito ciò che leggiamo hanno dentro anche questi frammenti autobiografici. Le condizioni e le circostanze devono permetterlo, favorirlo, invitarci a farlo. Non che sia sempre desiderabile per ciascuno, ma potremmo a volte sentirne il bisogno.
Le pratiche di lettura che sono anche autobiografiche a volte sono dichiarate dai lettori ad amici o anche negli spazi pubblici, come i gruppi di lettura. Altre volte, forse la maggior parte, non si manifestano. Restano nel chiuso della relazione privata dei lettori con i libri.
Prendere nota
Alcuni invece si annotano questi momenti di lettura epifanici, quando le scritture degli altri suscitano scritture proprie, anche solo annotazioni, appunti. L’impulso viene quando pare che quel momento di lettura davvero illumini in modo inedito e sorprendente anche frammenti del nostro passato e ci pare che non riusciremo mai più a rappresentare quel momento, quel ricordo così intenso, come fosse una scena che mai più rivivremo.
[Gli appunti. Ci aiutano indirettamente, per esempio, le indicazioni di Linda Finlay, una terapista che usa, e invita a usare, la descrizione fenomenologica scritta in prima persona per raccontare e fare i conti con momenti importanti della vita. Finley ci dice che prende appunti immediatamente dopo i momenti in cui si svolgono fatti o elabora delle idee o avverte delle sensazioni che giudica rilevanti. Che nel caso nostro sarebbero passaggi importanti di una lettura, una lettura solitaria, che ci illuminano, come detto prima. Queste notarelle aiutano successivamente, quando vorremo dare conto, raccontare il momento preciso in cui la lettura ci ha così colpiti e segnati: ci permetteranno di “ancorare il nostro racconto di lettura con immediatezza, nel qui-e-ora in cui è avvenuto”. ]
Gli appunti ci serviranno dunque nelle ore o nei giorni successivi. Li arricchiremo, elaboreremo il meglio di quelle scritture di getto, limeremo e riscriveremo, daremo possibilmente una struttura coerente, in un lavoro che vorremmo ci facesse rivivere ma anche poter comunicare agli altri i momenti nei quali ci è parso che la lettura ci riportasse magicamente in una scena passata della vita, di gioia o di dolore, o forse anche solo di noia, ma che per qualche motivo, che forse non scopriremo mai, è diventata, appunto, memorabile. Quegli appunti, dunque, alcuni di noi lo vorranno, diventeranno, dopo la rielaborazione, un nuovo racconto. Il racconto di una lettura che condivideremo e che in essa custodirà, dopo averla suscitata, una storia nostra che ora, dopo il lavoro di scavo e rielaborazione, siamo pronti a presentare ai nostri co-lettori. Insomma, questa volta diremo loro molto di noi.
Accogliere le storie degli altri lettori
Forse nei gruppi di lettura, a volte, dovremmo avere l’accortezza di favorire anche questa forma di discorso sui libri. Una sorta di digressione benevola – con la quale si estendono le relazioni inclusive fra lettori – che innerva la comunità di lettura di forme comprensione e di ascolto di grande valore. A volte dovremmo prestare più attenzione alle digressioni: forse queste storie vorrebbero raccontare le persone che ci sono vicine, nella lettura.
Rispondi