L’indicazione più stimolante della scorsa settimana a proposito di un libro, credo però sia questa:
Thomas Harrison, 1910. L’emancipazione della dissonanza, Editori Internazionali Riuniti
Ne ha scritto con la solita pacatezza (e lunghezza) Claudio Magris, giovedì 13 marzo sul Corriere della Sera.
In sostanza: il 1910 è un anno fondamentale, anche simbolico:
è la nascita, violenta e dolorosa, non solo di una nuova arte in tutti i campi, ma anche e soprattutto di un nuovo Io, di un nuovo modo di vivere il proprio impossibile rapporto con se stessi, l’insufficienza della vita e l’impossibilità ma anche necessità di vivere un’esistenza autentica. Quest’anno è come la ferita di un parto tragico e redentore; ferita sanguinante che gli anni e i decenni successivi avrebbero fintamente ricucito come una falsa verginità rifatta.
In quel 1910, invece “qualcosa, tutto o quasi tutto sta per disfarsi”.
Letteratura – specialmente la poesia – le arti figurative,la filosofia, la musica la scienza e prima ancora la vita stessa dell’occidente esplodono, sconvolte, liberate, resuscitate dalla rottura di ogni ordine armonico e di ogni armoniosa consonanza, distrutte nella loro secolare organizzazione e costrette, forse più con disperazione che con gioria, ad aprirsi a una creatività che non ha eguali.

Di questa dissonanza scrive Harris in questo libro. I grandi artisti di quegli anni – Kokoschka, Nietzsche, Michelstaedter, Kandisky, Kafka, Schiele, Rilke – solo per citarne alcuni che hanno amato l’autentica armonia, in nome di essa e per liberarne l’autenticità dalla falsa armonia retorica che la adultera, “hanno intrepidamente emancipato la dissonanza, in ogni campo; dissonanza che a loro volta li ha emancipati, li ha liberati interiormente”.
Fu poi la Grande guerra e quanto è venuto dopo che ha distrutto e snaturato i fermenti di quella grande dissonanza. La tragedia diventa retorica, la rottura delle forme diventa comoda e innocua trasgressione pianificata dell’avanguardia.
A tutto questo ha forse reagito solo il grande antiromanzo totale degli anni Venti-Trenta, l’opera di Kafka o di Musil, di Svevo, di Broch di Faulkner, quei grandi capolavori falliti – come li chiama La Capria – che hanno assunto su di sé, nella dissonanza delle forme narrative, la verità stravolta dell’epoca, che può essere narrata veramente solo in modo stravolto.
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