
Elizabeth Strout è più conosciuta per Olive Kitteridge, con cui ha vinto nel 2009 il Premio Pulitzer, e nel 2010 il Premio Bancarella. Non l’ho ancora letto, ma ho iniziato con Resta con me, sempre pubblicato da Fazi Editore.
Anche questo ambientato nel Maine, a West Annett, negli anni Cinquanta. Tyler è il parroco del villaggio, dove arriva qualche anno prima, insieme alla moglie Lauren, incinta; nasceranno poi le figlie Katherine e Jeannie. Un giovane reverendo molto amato da tutti, per la sua disponibilità, la sua gentilezza, la sua profondità nei sermoni; apprezzato dagli uomini per il suo impegno, dalle donne anche per il suo aspetto. E ciò fa sì che tutti chiudano un occhio sulla moglie, che non si è mai integrata nella comunità, legata al suo passato da cittadina, critica nei confronti della vita da paese, in qualche modo originale e anticonformista.
Quando incomincia il romanzo, però, Tyler è appena rimasto vedovo; Lauren è morta per una malattia, lasciandolo alle prese con Katherine, di 5 anni, e Jeannie, neonata, in custodia alla madre del reverendo. Una donna, la signora Hatch, lo aiuta in casa, e sembra l’unica a capire Tyler e le difficoltà che sta vivendo. Pian piano, infatti, il parroco si stacca sempre di più dalla realtà, dalla comunità e dalla sua famiglia, senza riuscire a riconoscere le difficoltà che vive la figlia (esclusa dagli altri bambini, chiusa in un preoccupante mutismo), e ignaro delle voci che si iniziano ad alzare contro di lui.
E sì, perché finché tutto va bene, la comunità è unita, ma quando qualcosa esce dagli schemi… il peggio esce da chiunque. E si inizia a sparlare, a fare insinuazioni, a scoprire cosa si nasconde dietro le tende ricamate a mano e cosa si mormora ai thè delle cinque fra un pasticcino e una torta di mele fatta a mano.
E qui esce la grandezza di questa scrittrice. Ti sembra di essere nel Maine, di essere negli anni Cinquanta, che gli Austin e i Caskey e gli Hatch siano tuoi vicini di casa e tu li conosca da anni, che ti basti andare nel ripostiglio a prendere i pattini per fare una corsa sul lago ghiacciato.
Bravissima quindi a creare delle impressioni, delle immagini; c’è una storia sotto, ma anche tanti ritratti e piccoli quadri. L’unico aspetto che mi fa dire che il libro mi è piaciuto, ma non è uno dei mie preferiti, è che alcuni personaggi (Tyler per primo) mi hanno un po’ infastidita, irritata. Ma forse anche questo è un pregio, perché in qualche modo ha saputo renderli veri.
La mattinata parve interminabile. Fuori dalla finestra il cielo era basso e grigio. Tyler aspettò. Aspetto che gli telefonasse Connie, o Adrian, oppure Ora Kendall, o Doris… non lo sapeva. Ma gli pareva di essere sospeso sopra la propria vita, come un uomo corpulento che galleggiava in un lago facendo il morto, mentre sotto di lui i pesci nuotavano per le vie delle città di West Annett, impegnati nelle loro faccende. E lui non aveva niente da fare. Si rese conto che negli ultimi tempi i suoi parrocchiani non gli telefonavano più tanto spesso per una visita, una preghiera, un consiglio, una guida. Ricordò che spesso aveva avuto la sensazione di non riuscire a stare dietro a tutto. Ricordò di aver fatto scivolare nel primo cassetto della scrivania la citazione di Henri Nouwen: “Per tutta la vita mi sono lamentato delle costanti interruzioni nel mio lavoro, finché non ho scoperto che quelle interruzioni erano il mio lavoro”.
*giuliaduepuntozero
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