Un amico mi ha raccontato di un collega, che chiameremo T. – accanito lettore di romanzi, pochi racconti – che si sentiva perseguitato, sul lavoro.
Aveva alcune ragioni per lamentarsi: qualche azione o parola scorrette o anche semplicemente una certa mancanza di gentilezza nei suoi confronti. A volte solo poche attenzioni.

Agli occhi di T. però, tutti questi comportamenti erano parte di un piano per intrappolarlo, eliminarlo dal luogo di lavoro, fargli genericamente male, isolarlo. Era vittima di una versione morbida della sindrome del complotto.
La sua antipatia, il disappunto, qualche eccesso di enfasi che dispensava venivano ricompensati – a suo dire – con vere trame ai suoi danni.
Sì, “trame”. L’ho usata a proposito questa parola, pensandoci.
Perché T. aveva la fissa delle storie. I romanzi che aveva letto e che leggeva lo avevano indotto a pensare al mondo e alle relazioni che teneva nel mondo, come a una sequenza lineare di azioni, conseguenze e reazioni.
Vale a dire, “leggeva” tutto come si legge in storie semplici.
A sentire T., la sua vita non era una complessa matrice fatta di cause ereditate, caso, scelte, coincidenze, fortune, sfortune, decisioni.
No, secondo T. il mondo è solo determinato da una serie di azioni premeditate e delle loro conseguenze. Quanto questa visione un po’ paranoica della vita fosse il risultato delle accanite letture di T., il mio amico non me lo sa dire.
Certo l’interpretazione di T. di quel che accadeva intorno aveva sempre una spiegazione “d’autore”. Vale a dire: come se vi fosse sempre un autore che progetta lo svolgersi dei fatti, uno conseguenza dell’altro, e guida le azioni dei protagonisti e delle comparse in una direzione precisa e prevedibile.
A T. ho pensato quando, qualche settimana fa, ho letto la recensione di questo libro:
The Storytelling Animal: How Stories Make Us Human di Jonathan Gotschall, appena pubblicato.
È, in effetti, uno di quei numerosi studi che escono in questi anni su quanto noi umani siamo dipendenti dalle storie, su come tendiamo a organizzare il sapere attraverso narrazioni di storie, su quanto la nostra vita ce la configuriamo raccontandola a noi stessi come se fosse una storia.
Gotschall, come si legge per altro su molti libri e articoli, ci dice quanto siano importanti le storie. Aspetti “buoni” che qui diamo per certi e accettati.
D’altra parte, però, sappiamo, le storie vengono usate anche in modo subdolo: basta vedere quanto il cosiddetto storytelling venga impiegato nelle aziende e nelle agenzie governative per propinare iniziative di ogni tipo, per la propaganda o per giustificare provvedimenti ingiusti. O, comunque, per manipolare la percezione della realtà.
Ne avevo scritto qualche anno fa a proposito di un libro assai critico: Storytelling, la fabbrica delle storie, di Christian Salmon (Storytelling, la fabbrica delle storie: la narrazione è uno strumento di manipolazione).
Il lato oscuro delle storie
Gotschall nel suo studio, invece, non può fare a meno di ricordare anche quanto la pratica umana di riassumere, analizzare, raccontare – prima di tutto a noi stessi – la nostra vita come una “storia”, ci porti ad autoingannarci, a tenere fuori aspetti e eventi ambigui o spiacevoli per amor proprio o per non affrontare momenti oscuri dell’esistenza trascorsa.
Certo, ricorda l’autore del libro: pare sia proprio la mente umana che tende ad attribuire significato alla propria vita, dandole la forma narrativa di una storia: perché facciamo fatica a sopportare l’idea che la nostra esistenza sia anche casuale, accidentale; che sia la combinazione di decine di azioni indipendenti: preferiamo credere che tutto succeda perché qualcuno decida che debba andare così, che i fatti avvengano perché noi e alcune altre persone implicate (poche, poche) li facciamo succedere (come pensava T., in fondo).
Le storie ci permettono di imporre ordine al caos. Il più delle volte lo facciamo in buona fede, anche se il risultato è una riduzione, una mutazione, trasformazione, adattamento della realtà.
Come ricorda Maura Kelley su The Atlantic, nel recensire Gotschall: gli psicologi spiegano come il processo tipico sia di narrare la storia della nostra vita o di un suo episodio importante a partire dall’ultima narrazione fattane, non dai fatti. Così, se racconto per la centesima volta un grave litigio con un amico, la mia fonte sarà il 99° racconto che ne ho fatto, non i fatti come li avevo vissuti e interpretati al momento dell’accaduto.
Uno psicologo intervistato da Kelley dice che tutte le memorie di vita, anche quelle ritenute più fedeli all’accaduto, dovrebbero essere ascoltate o lette tenendo presente una specie di avvertenza: si tratta di memorie “basate su una storia vera”. e non di “una storia vera”.
Insomma, come T. aveva mostrato al mio amico, imporre una storia sulla propria vita comporta dei rischi notevoli, ti fa perdere la percezione di quel che succede veramente e della tua posizione nel mondo e delle tue relazioni con gli altri. D’altra parte, ricorda sempre Kelley su The Atlantic, pare che una caratteristica delle persone depresse sia la loro capacità di raccontare la propria storia in modo più realistico rispetto alle persone più felici o ignare, che tendono a semplificare e, come si direbbe in una conversazione a “raccontarsela su”. Quindi, attenzione a reprimere troppo la nostra propensione a raccontarcela.
Il tutto fa pensare quanto sia difficile mantenersi in equilibrio. Per semplificare: da una parte il rischio di ingannarsi e soprattutto, ingannare. Dall’altro la possibilità di deprimersi, raccontando di se stessi una storia debole e povera.
L’equilibrio però c’è, si può trovare. Verrebbe da dire, con storie più complesse; storie che forse non sono solo storie.
L’equilibrio ce lo hanno indicato, per esempio, Freud e Joyce, con la loro considerazione dell’unicità e forza della vita quotidiana di ciascuno (“È possibile vedere ogni vita umana come fosse un poema“). Joyce e tutti i modernisti, ma, come ci ricorda continuamente Kundera, in generale il grande romanzo. Che è molto di più di una storia, ovviamente. (Kundera in verità ci ricorda anche che già Henry Fielding a metà del ‘700 si era ribellato contro il “potere assolutista” della story, rivendicando il diritto alle digressioni).
La narrazione, che esiste sin dalla notte dei tempi, si è infatti trasformata in romanzo nel momento in cui l’autore non si è più accontentato di una semplice story, ma ha spalancato le finestre sul mondo circostante. A una story si sono così unite altre stories, episodi, descrizioni, osservazioni, riflessioni, e l’autore si è trovato di fronte a una materia molto complessa, molto eterogenea, alla quale, non diversamente da un architetto, doveva dar forma; così, per l’arte del romanzo, la composizione (l’architettura) ha acquistato sin dagli inizi un’importanza basilare.
(Milan Kundera, Il Sipario, Adelphi)
Insomma, se storie vogliamo (e le vogliamo) nel rappresentarci la vita, facciamo però in modo che siano storie composte e ricche, con una forma che tenga dentro tutto. Partendo da qui, forse T. avrebbe rivisitato la sua teoria del complotto.
Prima di chiudere cito solo il nostro amato W.G. Sebald, come esempio sublime di narratore di storie che si allargano e avvolgono, esattamente l’opposto dello storytelling lineare che semplifica e inganna.
E poi un intervento di Tim Parks sul blog della New York Review of Books, nel quale lo scrittore inglese addirittura si chiede se davvero abbiamo bisogno di storie: con argomenti coraggiosi che indicano una ormai diffusa diffidenza nei confronti delle storie come strumenti di rappresentazion e comprensione del mondo.
(Ammetto: il titolo è un po’ eccessivo; esagerato, ma era per rendere l’idea immediatamente 🙂
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