Per quanto gli uomini, riuniti a centinaia di migliaia in un piccolo spazio, cercassero di deturpare la terra in cui si accalcavano, per quanto la soffocassero di pietre, perché nulla vi crescesse, per quanto estirpassero qualsiasi filo d’erba che riusciva a spuntare, per quanto esalassero fumi di carbon fossile e petrolio, per quanto abbattessero gli alberi e scacciassero tutti gli animali e gli uccelli, la primavera era primavera anche in città.
L’ultimo romanzo scritto da Tolstoj è una storia d’amore e insieme un pamphlet di denuncia; ma, ancora di più, un percorso di rassegnazione, a dispetto del titolo. Senza troppi preamboli, eccoci in carcere. La telecamera inquadra subito la protagonista del libro, la Maslova, una prostituta ingiustamente accusata di aver avvelenato un cliente che sta per essere condotta in tribunale.
Tra i giurati del processo, il principe Nechljudov riconosce la contadina che ha sedotto in gioventù (e a cui ha rovinato la vita, lasciandola incinta al suo destino di miseria e perdizione): come in una tragedia greca, le colpe ci inseguono per tutta la vita e, prima o poi, bisogna farci i conti. Da qui, inizia il tentativo di redenzione del protagonista, che abbandonando potere e ricchezze (la vera ossessione tardiva di Tolstoj), segue in Siberia la vittima delle sue malefatte, per sposarla e riparare ai suoi torti. Ma la Maslova non ci sta: non è così semplice.
“Vattene da me. Io sono una forzata e tu un principe, e questo non è posto per te”, gridò trasfigurata dall’ira, stappando via la mano. “Vuoi salvarti per mezzo mio”, proseguì, affrettandosi a dire tutto quello che le si era levato nell’anima. “A mie spese te la sei spassata in questa vita, e adesso a mie spese vuoi salvarti all’altro mondo!”.
Quindi: nessuno può diventare strumento di salvazione per qualcun altro, ognuno è responsabile per sé (e se la vede con le proprie colpe), e bisogna salvarsi da soli, in questo mondo e, se c’è, anche nell’altro. Lo strabismo della Maslova, quel dettaglio che rende il suo sguardo così vivido e sensuale, è simbolico. Da carcerata, guarda in faccia la propria colpa senza paura e si trasforma finalmente in una persona libera, che non accetta di diventare “moneta di scambio con l’eternità” come suggerisce nella bella prefazione all’edizione Garzanti Serena Vitale. Da vittima, la sua seconda vista indica l’ingiustizia della propria condizione (e quella di tanti altri) condannata attraverso un processo kafkiano a causa di un susseguirsi di coincidenze e disattenzioni e diventa quindi simbolo agli occhi di Nechljudov-Tolstoj della corruzione del sistema penitenziario prima, giudiziario poi che invece di redimere, corrompe. Tanto da far esclamare al principe:
Sì, l’unico posto che qui in Russia convenga a un cittadino onesto è la prigione!
E a fargli dubitare dell’intero assetto sociale e politico della mondo in cui viveva:
Loro sono pericolosi (ndr: i carcerati) e noi non lo siamo? Io sono un dissoluto, un libertino, un traditore, e tutti noi, tutti quelli che, conoscendomi così come sono, non solo non mi disprezzavano, ma mi rispettavano?
Nemmeno la natura è più complice: fin dal primo periodo, non è il rifugio ritemprante in cui l’uomo trova conforto in se stesso e consonanza verso gli altri esseri umani, a cui ci aveva abituati in Guerra e Pace o in Anna Karenina, ma piuttosto un luogo ostile, che quando non è violato dall’uomo, lo vessa. L’esplosione della natura, teatro della magistrale scena della seduzione della Maslova da parte di Nechlijudov, è una scenografia sinistra che fa da sfondo a uno stupro più che alla prima notte d’amore di una ragazza innamorata.
Sorrise solo quando sorrise lui, sorrise come per sottomerterglisi, ma nella sua anima non c’era sorriso, c’era paura… Fuori era già più chiaro; giù, sul fiume, lo scricchiolio, e il tintinnio e l’ansimare si erano ancora intensificati, e ai suoni di prima si era aggiunto un gorgoglio. La nebbia cominciava a posarsi, e oltre il muro di nebbia era emersa la luna calante, illuminando foscamente qualcosa di nero e spaventoso.
La redenzione perciò non è un dono naturale né un precetto sociale e neppure una grazia, ma solo una conquista individuale, in cui ognuno deve trovare (se può), la propria strada. La Maslova ci riesce, il destino di Nechljudov rimanda a un futuro incerto; per tutti gli altri, Tolstoj ci lascia almeno il beneficio del dubbio:
Una delle superstizioni più frequenti e diffuse è che ogni uomo abbia solo certe qualità già definite, che ci sia l’uomo buono, cattivo, intelligente, stupido, energico, apatico eccetera. Ma gli uomini non sono così. Possiamo dire di un uomo che è più spesso buono che cattivo, più spesso intelligente che stupido, più spesso energico che apatico, e viceversa. Ma non sarebbe la verità se dicessimo di un uomo che è buono o intelligente e di un altro che è cattivo, o stupido. E invece è sempre così che distinguiamo le persone. Ed è sbagliato. Gli uomini sono come fiumi: l’acqua è in tutti uguale e ovunque la stessa, ma ogni fiume è ora stretto, ora rapido, ora ampio, ora tranquillo, ora limpido, ora freddo, ora torbido, ora tiepido. Così anche gli uomini. Ogni uomo reca in sé, in germe, tutte le qualità umane, e talvolta ne manifesta alcune, talvolta altre e spesso non è affatto simile a sé, pur restando sempre unico e sempre lo stesso.
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