
Baricco su la Repubblica nella rubrica che tiene ogni settimana Una certa idea di mondo; nel recensire La trilogia Adamsberg di Fred Vargas, ed. Einaudi, fa una lunga premessa sul suo poco amore per il genere dei gialli. Fa eccezione Fred Vargas, ovviamente.
Non vado matto per i gialli, odio i thriller. Lo dico serenamente e senza nessuna fierezza particolare. Semplicemente non fanno per me. Mi dà fastidio fisico trovarmi nella condizione, cara a molti, di divorare un libro per sapere come va a finire. Io trovo già abbastanza inelegante che i libri “vadano a finire”, figuriamoci se mi piace farmi tenere sulla graticola da uno che ci mette cinquecento pagine per dirmi il nome di chi ha tritato il parroco. Devo anche dire che non riesco ad apprezzare la prodezza: fare arrivare un lettore alla fine di un thriller è come far arrivare uno che ha fame alla fine del tubo delle Pringles. Sai che roba. Fategli finire un piatto di broccoli bolliti a merenda, e ne riparliamo.
In generale penso che la ragione per cui vai avanti a leggere, nei libri, non dovrebbe essere che vuoi arrivare in qualche posto, ma che vuoi rimanere in quel posto lì. Non ho letto Il giovane Holden o Cent’anni di solitudine per sapere come andavano a finire: mi andava di stare in quella luce, o leggerezza, o precisione, o follia, più tempo possibile. E’ un paesaggio, la scrittura, non va a finire da nessuna parte, è lì e basta. Respirarlo è quello che si può fare. E la trama?, dice. La trama non conta niente? Certo che conta, per carità, dei libri che non raccontavano niente ci siamo liberati anni fa, per favore non torniamo indietro. Però immaginate di stare seduti su una sedia a dondolo a godervi un paesaggio, nell’aria pulita del mattino. Ora provate per un attimo a smettere di dondolarvi. Non è la stessa cosa vero? La trama, in un bel libro, è il dondolio della sedia. E il vento che ridisegna l’erba di quel campo, il passare delle nuvole che saltuariamente cala ombre passeggere sui colori. Forse quel volo d’uccello, e in alcuni casi il rumore di un treno che passa lontano. La trama è quel che si muove nel paesaggio della scrittura, rendendola vivente. E’ l’increspatura sul pelo dell’acqua: è così importante che, in un modo impreciso, la chiamiamo mare.
Capite allora che per uno che la pensa così i thriller siano un dispetto. Quando sono scritti coi piedi, un’offesa. Una certa gratitudine la nutro solo per quelli che si perdono per strada: quelli che nel loro procedere verso il nome dell’assassino si attardano a vagabondare un po’, collezionando mondo intorno. Come un cacciatore che si perda a contemplare la campagna, o i cespugli di more. L’esempio classico, nell’ambito dei polizieschi, è Maigret: adoro come invece di cercare l’assassino si limiti spesso ad aspettarlo, ricostruendo semplicemente il mondo intorno a lui. Così io leggo e sto a Parigi, annuso portinerie, sfioro letti sfatti, sorseggio Armagnac e prendo il vento sui ponti: il nome del colpevole mi è a ogni pagina più indifferente (talvolta anche a lui, Maigret). Se arrivo alla fine è giusto perché in qualche modo resta il desiderio di mettere i pezzi a posto, ma così, per completezza, come raddrizzare il quadro sulla parete. Nulla di più. […]
*giuliaduepuntozero
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