Intervista a Jesse Browner – parte seconda

Jesse Browner
Jesse Browner

Ed ecco la seconda parte dell’esclusiva intervista a Jesse Browner. A questo indirizzo la prima parte, e a questo la recensione del libro *Tutto accade oggi*.

D: Che libro hai sul comodino, e un libro che consigli di leggere.

R: In questo momento sto leggendo They Were Counted, dello scrittore ungherese Miklós Bánffy (1843-1911) [in italiano pubblicato da Einaudi col titolo *Dio ha misurato il tuo regno. Una storia transilvana*]. Se avessi un unico libro da dare a un giovane scrittore come modello per il romanzo perfetto, sarebbe Skylark, di un altro ungherese, Deszö Kosztolányi (1885-1936)  [in italiano pubblicato da Sellerio col titolo *Allodola*].

D: Anche la musica è molto importante. Mi è piaciuto molto il pezzo in cui Wes descrive la teoria di suo padre secondo cui il rock aveva creato un legame fra le generazioni che prima degli anni Cinquanta non esisteva. È importante per te la musica? Ascolti musica mentre scrivi?

R: Mi piace ascoltare la musica, più che averla sullo sfondo, per questo passo meno tempo ora ad ascoltare musica di quanto non fossi abituato, semplicemente perché lavoro troppo. La musica è ovviamente molto importante per Wes, per questo motivo è un tema centrale nel romanzo, quasi un personaggio a se’ stante, ma non lo è in nessun altro dei miei libri. Per quanto riguarda me, non ascolto mai nulla se non le voci dei miei personaggi, mentre scrivo.

D: Tu non sei solo uno scrittore, ma anche un traduttore (Jean Cocteau, Paul Eluard, Rainer Maria Rilke): quanto influisce questa tua formazione sul lavoro di romanziere? 

R: Sono convinto che sarei stato uno scrittore, indipendentemente da dove o quando fossi cresciuto. E’ l’unica cosa che abbia mai avuto interesse per me. Ma dal momento che sono cresciuto in Inghilterra e sono andato a una scuola multi-lingue, non c’è nessun dubbio che la letteratura europea – francese, inglese e russa, per la maggior parte – sia stata la mia prima e più importante influenza. Infatti, ho letto il mio primo romanzo americano solo a 18 anni. Sono diventato un traduttore perché era qualcosa che riuscivo a fare, e da cui potevo ricavare un po’ di soldi quando ero giovane e stavo appena iniziando come romanziere, e gradualmente è diventata la mia prima fonte di guadagno (e lo è tuttora). Il lavoro di traduttore ha avuto un’influenza molto precisa sulla mia scrittura perché, quando le parole non sono tue, ti insegnano una specie di rispetto, attenzione, disciplina e senso della responsabilità che sono più difficili da padroneggiare se sei completamente libero. Quando scrivo per me stesso scrivo quasi come se stessi traducendo il lavoro di qualcun altro. Ogni parola, ogni frase, deve essere pesata e giudicata e manipolata come se appartenesse a un altro, e deve essere restituita al proprietario nella stessa, se non in una migliore, condizione di quella in cui è stata trovata.

D: Mi incuriosisce molto il libro che hai scritto “The uncertain hour” (pubblicato in Italia da Cairo Publishing col titolo “L’ora incerta. L’ultima cena di Petronio), sull’ultima cena di Petronio prima del suo suicidio. Com’è nata l’idea per questo romanzo?

R: Il mio terzo libro era una specie di storia per aneddoti sull’ospitalità, chiamato  The Duchess Who Wouldn’t Sit Down (non pubblicato in Italia). Una delle storie che narravo in quel libro riguardava il banchetto del suicidio di Petronio come esempio della delicatezza e della grazia con le quali dovrebbe essere approcciata  l’ospitalità. Dal momento che non si conosce nulla della vita di Petronio, ho avuto l’opportunità di inventarmi la sua personalità, e quando il libro era finito, ho scoperto di non essere capace di dimenticarlo o di lasciarlo incompleto. The Uncertain Hour è stato il mio tentativo di finire quello che avevo incominciato.

D: Sai l’italiano, ho letto un bell’articolo su un tuo viaggio in Campania… Che rapporto hai con l’Italia, e cosa pensi del nostro Paese?

R: La mia prima conoscenza dell’Italia è stata da studente di Latino e di storia antica, ma ho anche passato lì molto tempo da bambino e da giovane, e mi sono trasferito a Firenze per studiare l’italiano dopo l’università. Conoscevo più profondamente la cultura francese di quella italiana, perché ho frequentato uno scuola francese per molti anni. Gradualmente, comunque, la mia sensibilità si è allontanata dalla Francia per avvicinarsi all’Italia, Spagna e America Latina – culture Romanze che non sono paralizzate e preservate nella pietra come è diventata la cultura francese. Ogni americano ama l’Italia, ovviamente, perché ha contribuito così tanto alla nostra civilizzazione, ma il mio background è ebreo dell’Europa dell’est, di conseguenza non ho un legame ereditario – solo emotivo. Forse è perché l’Italia è un’entità così confusionaria, caotica e contraddittoria – proprio come me – che ne sono così attratto. E come quasi chiunque al mondo, ho abbandonato la cucina francese da molto tempo per quella italiana!

Thank you again, Jesse!

*giuliaduepuntozero

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2 risposte a “Intervista a Jesse Browner – parte seconda”

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  2. Complimenti, Giulia2.0, per questa intervista in due puntate! E’ sempre utile ascoltare, anche in forma scritta, la voce narrante di un autore. Permette di comprendere meglio cosa sta oltre ‘le copertine’, e anche forse da che si origina uno stile scrittorio, i contenuti delle storie, percepire un libro ‘a monte’. Arricchente. Grazie!

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