Nicole Krauss nel 2010 è stata segnalata dal The New Yorker tra i 20 migliori scrittori americani under 40. Non conosco la maggioranza dei 20 scrittori di questa lista, ma penso che la presenza di Nicole sia meritata.
Ho letto con interesse i tre romanzi pubblicati in Italia: più che Un uomo sulla soglia, La storia dell’amore, che ho sempre pensato di rileggere e approfondire. Ancora più affascinata dalla recente lettura dell’ultimo romanzo, pubblicato nel 2011 da Guanda,, La grande casa. Colpiscono la profondità del racconto, la capacità introspettiva, l’abilità descrittiva, la sensibilità di una scrittrice sempre in crescita, sempre più matura, nonostante la giovane età.
E’ un romanzo coinvolgente, ma anche di non facile lettura: ultimata la lettura, ho sentito il bisogno di rileggerlo con un ordine diverso da quello impostato dalla Krauss.
Il romanzo, diviso in due parti, si articola in quattro racconti con personaggi diversi le cui storie, iniziate nella prima parte, si completano e si intersecano nella seconda. Nella mia rilettura ho letto le storie, unendo i racconti delle due parti, per tentare di capire meglio i passaggi, le integrazioni: un po’ ci sono riuscita, ma non del tutto perché storie e personaggi si caratterizzano anche per quel tanto di mistero che li circonda.
Tutte le storie hanno un riferimento comune: una scrivania con 19 cassetti, di cui uno chiuso a chiave. Anche la scrivania è molto misteriosa: “è enorme spettrale… mostro grottesco e minaccioso… che risucchia tutta l’aria della stanza, un colosso foriero di cattivi presagi che opprimeva gli occupanti della camera in cui si trovava”. Così grande da far sembrare piccolo qualunque ambiente la ospitasse. E’ ingombrante come la memoria di cui certamente è simbolo.
E su di essa personaggi importanti del romanzo scrivono romanzi o racconti.
Quattro sono le voci narranti storie, vissute nel dolore e nella devastazione delle guerre; si caratterizzano per la solitudine dei personaggi, per lo più scrittori inquieti, insicuri, in crisi di creatività. In questa specie di puzzle, che non è facile ricomporre, ci si muove nel tempo e nello spazio: dalla fine degli anni trenta-quaranta in Germania o a Budapest, o più tardi negli anni settanta a Gerusalemme o nel Cile di Pinochet o a Londra. Dai tempi dell’olocauso a tempi più recenti quella scrivania – come recita il risvolto di copertina – diviene il simbolo di destini che si intrecciano, incarnando ricordi, rimpianti, debolezze di chi l’ha posseduta e perduta.
Solitudine, perdita, morte, mistero: le parole chiave del romanzo.
Tutte le storie hanno in sé qualcosa di struggente, ma una più di altre: la storia di Lotte, che è arrivata a Londra in fuga dalla Germania nazista come accompagnatrice di 86 bambini con un kindertransport. Arthur, il marito, professore a Oxford, è la voce narrante di una storia tenerissima, di un difficile rapporto con una donna molto amata , chiusa nel suo misterioso passato che il marito scoprirà solo dopo la sua morte. Di fronte a quel mistero Arhur arriverà a pensare” quanto fosse stato ridicolo aver dedicato la vita intera a studiare i cosiddetti poeti romantici.”
Nicole Krauss è ebrea, anche se non praticante, come lei stessa dichiara, e questa sua componente ebraica è così forte da lasciare forti tracce nei suoi romanzi. E’ qualcosa con cui non può non fare i conti. Anche “La grande casa“ del titolo, come è spiegato alla fine del romanzo, è un importante riferimento alla storia ebraica, a come gli ebrei sopravvissero alla diaspora, al momento in cui i Romani distrussero il secondo tempio di Gerusalemme e il rabbino Yochanan ben Zakkai fece risorgere la corte di giustizia finita in cenere, trasformando “Gerusalemme in un’idea”.
Trasmutare il tempio in un libro (Talmud) vasto, sacro e intricato quanto la città stessa… in seguito la scuola talmudica di ben Zakkai divenne nota con il nome di “Gande casa, una formula tratta dal Libro dei re: Ed arse col fuoco tutte le case grandi. Sono passati 2000 anni… e ormai l’anima di ogni ebreo è costruita intorno all’edificio ridotto in cenere da quell’incendio, un edificio così ampio che ciascuno di noi può ricordare solo pochi dettagli…ma se le memorie di tutti gli ebrei si ricongiungessero… la Casa risorgerebbe di nuovo… o meglio ne rinascerebbe una memoria così compiuta da coincidere nella sua essenza con l’originale stesso”.
La grande casa diventa nel romanzo una metafora delle stanze della nostra mente, ognuna delle quali rinchiude ricordi, rimpianti, come l’ingombrante scrivania con i suoi diciannove cassetti.
I bellissimi misteriosi racconti racchiudono temi diversi cari alla come il difficile rapporto tra genitori e figli, tra marito e moglie, il rifiuto della maternità, ma soprattutto la vita tormentata dello scrittore. Molti nel romanzo i discorsi sul mestiere dello scrittore.
Nadia, che ha ricevuto la scrivania dal poeta cileno Daniel Varski che poi morirà vittima di Pinochet, scrive su quella scrivania sette romanzi e ne inizia un ottavo e difende “la libertà di chi scrive, libertà di creare, alterare, correggere, condensare, espandere, attribuire significati, ideare, rappresentare, simulare, scegliere un’esistenza… io esaltavo l’ineguagliabile libertà dell’ scrittore, libertà da qualunque responsabilità verso tutti e tutto… lo scrittore adempie a una più alta missione, a quella che in ambito religioso si definisce una vocazione e non può preoccuparsi troppo dei sentimenti di coloro da cui prende in prestito la vita….Non ha dovere di accuratezza o verosimiglianza rispetto alla realtà. Non è un contabile, né è obbligato ad assumere il ruolo ridicolo e fuorviante della guida morale. Nella propria opera è svincolato da ogni legge. Ma nella vita non gode della stessa libertà.”
Nadia, persa nel suo mondo di scrittrice,finisce per rinunciare a veri rapporti, per esempio con il marito che la rimprovera di essere “egoista, concentrata su di sé, immersa nel silenzio a difendere il proprio piccolo regno”.
Anche Lotte, che dona la scrivania a Daniel Varski e che aveva scelto di sopportare da sola tragedie inconcepibili, trasformava su quella scrivania l’urlo soffocato in cupi e drammatici racconti, creava storie bizzarre e sconcertanti, che a volte rasentavano l’orrore. “Per cupi che fossero i suoi racconti, la fatica di scriverli, lo sforzo creativo, poteva essere considerata unicamente una forma di speranza, un rifiuto della morte, un grido di vita a dispetto della fine”.
Intensissimo anche il racconto di un difficile rapporto tra padre e figlio, un padre israeliano autoritario tiranno che in fondo ha ostacolato Dovik, un figlio difficile, introverso, inquieto , infelice, nel diventare scrittore: un figlio che scriveva racconti con vicende intricate inverosimili e che invece diventa giudice di successo a Londra.
C’è poi un personaggio che si infila in tante storie ed è il mercante d’arte George Weizs,ebreo di Budapest che cerca mobili di famiglie ebree per resttuire ai sopravvissuti una parvenza di vita come era stata prima della shoah. E pare essere stato il padre di Wezs il primo proprietario della scrivania. quella scrivania ritrovata farebbe rivivere il padre derubato dai nazisti nel 44 a Budapest.
Nicole Krauss dichiara che nei suoi romanzi non ama fare dell’autobiografia e ci crediamo, sapendola anche felicemente sposata dal 2004 con J. Safran Foer, altro scrittore di successo, da cui ha avuto due figli, ma è certo che elementi della sua vita affiorano qua e là nelle storie dei suoi personaggi, lei che è di famiglia ebraica con madre inglese, padre americano, nonni paterni ungheresi !
Nicole Krauss, La grande casa, Guanda, 2011, pp.334, euro 18,00
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