E come anche una foto di André Kertész possa esprimere questa incertezza

James Wood, nel suo Come funzionano i romanzi (How fiction Works), scrive:
Lo scrittore tedesco W.G. Sebald mi ha detto una volta:
“Per me la scrittura narrativa che non riconosce l’incertezza del narratore è una forma di impostura, e trovo molto, molto difficile mandarla giù. Qualsiasi forma di scrittura d’autore in cui il narratore si atteggia a macchinista e regista e giudice ed esecutore del testo mi sembra in qualche modo inaccettabile. Non sopporto di leggere libri di questo genere”.
Mi pare un buon punto di partenza per avvicinare la scrittura W.G. Sebald. Perché attorno al narratore incerto e privo della potenza di “macchinista” e “giudice” del testo, si dipana tutta il lavoro dello scrittore tedesco.
Sia nel senso di interrogarsi senza tregua sulla linea di confine fra le certezze e le incertezze, sia nel senso (conseguenza del primo) di “chi esita”, nel narrare. È come se si ponesse continuamente domande e avesse dubbi, e quindi si fermasse a formularli.
Intrecciate a questa incertezza sono, probabilmente, anche le digressioni di Sebald – un altro dei tratti distintivi della sua scrittura – che suggeriscono inoltre l’ambivalenza e il dubbio nei confronti dell’oggetto della scrittura stessa.
La fotografia di André Kertész
L’incertezza del narratore – ma, forse ancora di più l’incertezza del lettore – di Sebald mi sembra sia espressa bene da una foto di André Kertész, “New York 1954”. (Kertész è un grande fotografo ungherese che ha lavorato sia a Parigi che negli Stati Uniti, dopo alcuni anni nella sua Ungheria. Scattò nel 1954 una serie di memorabili fotografie e una di queste è quella che ci interessa. Purtroppo non ho trovato una copia digitale di qualità migliore: diciamo che questa serve solo per dare un’idea di questo magnifica fotografia, almeno della sua grande forza compositiva. Di André Kertész ci eravamo già occupati in relazione alla ripubblicazione di On reading).
Viene quasi naturale occuparsi di fotografia in relazione con la scrittura di Sebald visto l’importanza che hanno le immagini nei suoi lavori; immagini – foto, ma non solo foto – che punteggiano le pagine suggerendo altri risvolti, oltre quelli aperti dalle parole.
Nel caso di questa fotografia di Kertész, Geoff Dyer – a sua volta estimatore di W.G. Sebald – ha scritto alcune righe che – se pure riferite a tutt’altro – mi sembrano essere adatte anche a descrivere Sebald e la sua scrittura.
In The Ongoing Moment (L’infinito istante. Saggio sulla fotografia, Einaudi), Dyer dice che in queste figure ritratte da Kertész c’è una assenza assoluta di fretta e di urgenza. In essi, aggiunge, c’è la qualità dell’esclusione ma anche dell’elezione, che segna tutti coloro che non hanno un ufficio verso il quale affrettarsi.
Come ha sottolineato un’altra grande fotografa, Diane Arbus, anche lei citata da Dyer: “Un impiego aiuta a non affrontare le domande alle quali non si possono dare risposte”. Continua Dyer:
senza un impiego che distragga e riempia le giornate, anche le domande più semplici assumono il peso stesso del fato. Si ha tutto il giorno per dedicare attenzione alle offese subite, alle decisioni sbagliate, ma questo, d’altra parte, può generare un certo piacere: senza nulla che distragga, queste cose assumono le sembianze di fatti della vita, parti stesse della condizione umana quanto una panchina è parte di un parco. Così quando si arriva davanti alla panchina nel parco, magari la tua panchina preferita, e la si trova rotta, l’esperienza è al tempo stesso un fastidio personale e il rafforzamento di qualcosa al quale ci si è abbondantemente rassegnati. In queste circostanze, cosa si può fare salvo guardare la situazione e provare a capire quanto o cosa si debba leggere in essa, quanto dobbiamo prenderla come una faccenda personale; e se, in realtà, ci sia una qualche differenza fra il destino e il caso?
(è un mia traduzione perché ho sotto mano solo l’edizione originale del libro di Dyer; mi scuso quindi per la rozzezza e le eventuali imprecisioni)
L’uomo ritratto da Kertész pare uno di questi uomini, uno di quelli che, forse, ha tutto il giorno per porsi domande dalle risposte difficili, domande che le persone prese dagli impegni di routine quotidiane faticano a farsi, alle quali cercano di stare alla larga.
Ecco, i narratori dei libri di Sebald vivono la condizione – insieme tormentata e privilegiata – di chi si può fare certe domande e cercare le risposte.
E in un certo modo, per quanto dura la lettura almeno, questa condizione la vive anche il lettore di Sebald.
Esemplare, in questo senso, Gli anelli di Saturno, nel quale, in ogni pagina, il tema trattato lascia nel dubbio che sia una digressione; mentre convince di più l’idea che sia la ricerca di qualche risposta ad alcune delle molte domande che il narratore è costretto a porsi. E con lui anche il lettore.
Apparentemente – così viene presentato in genere – Gli Anelli di Saturno è un resoconto di un viaggio a piedi nell’East Anglia, fatto dallo stesso Sebald negli anni ’90.
Quasi ogni capitolo incomincia con il narratore (che, non va dimenticato, nel caso di Sebald è un narratore assai enigmatico: cioè, pur avvicinandosi all’autore, non coincide mai pienamente con esso; e in alcuni casi, per esempio in Austerlitz, è un vero narratore di fiction, pur mostrandosi al lettore molto simile agli altri narratori sebaldiani; il lettore di tutti i libri dello scrittore tedesco quindi è unpo’ “ingannato”. Tende cioè – almeno a me capita così – a sentire sempre la stessa voce in tutti i suoi libri) che racconta, un luogo o un incontro di questo suo viaggio.
Ben presto però, tale racconto si trasforma: diventa una lunga riflessione su un luogo o un evento o un personaggio: oggetti di scrittura spesso assai lontani dai luoghi del cammino, e spesso legati a questi luoghi solo da un pretesto, o da un dettaglio secondario.
Prendiamo un capitolo a caso de Gli Anelli di Saturno e provo a spiegarne lo sviluppo. È la “parte quarta” del libro, nell’edizione Adelphi. Come tutti i capitoli del libro, comincia con un riferimento fisico a un luogo attraversato dall’autore/narratore. In questo caso siamo nella baia di Southwold.
Il narratore, dopo cena, esce da Southwold e si ferma a riposare guardando il mare:
Mi sentivo come in un teatro vuoto, e non sarei rimasto sorpreso se, all’improvviso, davanti a me si fosse alzato il sipario e sul proscenio fosse ad esempio ricomparso il 28 maggio 1672, quella giornata memorabile in cui là fuori la flotta olandese, con la radiosa luce del mattino alle spalle, era affiorata dalla nebbia sospesa sul mare e aveva aperto il fuoco contro le navi inglesi radunate nella baia di Southwold.
La riflessione sulla storia: il pilastro della scrittura di Sebald, ma poi, oltre alla
– cosiddetta battaglia di Sole Bay,
il capitolo racconta:
– un sogno di qualche anno addietro relativo a una remota montagna
– il ricordo di un anno prima, quando il narratore si trovava su una spiaggia olandese
– alcuni giorni all’Aia per recarsi al museo Mauritshuis
– le riflessioni su Veduta di Haarlem con i campi per il candeggio di Jacob van Ruisdael
– il viaggio di Diderot in Olanda
– gli stabilimenti termali a Scheveningen
– la storia di San Sebaldo
– il vuoto di “umanità” delle terre viste dagli aerei
– la Sailor’s Reading Room di Southwold
– un grosso in-folio squinternato con una storia fotografica della prima guerra mondiale
– l’edizione domenicale dell’Independent con un articolo su il lager di Jasenovac dove gli Ustascia croati uccisero settecentomila persone con metodi che persino i nazisti, pare, trovavano eccessivi
– Kurt Waldheim che lavorava per il servizio informazioni dell’Armata dell’Est tedesca e che redasse i memoranda relativi al lager di Jasenovac e venne decorato dal capo Ustascia Ante Pavelić.
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