Otto euro per sole 58 pagine sono veramente un prezzo sproporzionato, ma il breve saggio di Gustavo Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente merita di essere letto e meditato. Che la lingua sia in continua trasformazione è palese, ma rattrista constatare che stiamo andando sempre più verso un linguaggio stereotipato e kitsch.
Il noto giurista della Corte costituzionale e professore di diritto costituzionale all’università di Torino riflette sull’impoverimento della lingua nel tempo presente come segno degenerativo della vita pubblica. Gli undici paragrafi in cui si articola il saggio sono un vero e proprio endecalogo della regressione linguistica, per dimostrare come il linguaggio della politica, amplificato dai mass media, nel farsi senso comune, finisca per addormentare le coscienze.
Il linguaggio politico preso in esame è quello di questi ultimi sedici anni. Anche se non c’è un ministero della propaganda a forgiare la lingua, come in tempi di fascismo o nazismo, Zagrebelski ci indica alcune espressioni linguistiche, che abbiamo assimilate senza senso critico, perché diventate di uso quotidiano.
Quante volte abbiamo sentito l’espressione “scendere in politica”senza fermarci a riflettere sul suo vero significato, eppure è propro da questa frase che parte la sequenza da prendere in esame per la sua dimostrazione.
Perché “scendere” e non entrare in politica? Scendere come da una vita superiore dell’Azienda, dove “fioriscono virtù, purezza, capacità di buone opere,” per cui si crea un legame mistico tra salvatore e salvati: quasi un linguaggio liturgico “descendit de coelis propter nos” e viene ad “habitare in nobis propter nostram salutem”. La via che conduce alla politica procede dal basso o dall’alto, se procede dal basso “vuol dire all’interno di un’esperienza politica che, man mano che si arricchisce porta all’assunzione di sempre più vaste responsabilità e di più estesi poteri”, cioè “la politica come professione nel senso classico di Max Weber”. Invece “ora c’è un popolo intero che ha bisogno di soccorso. Non rispondere alla chiamata sarebbe un atto di egoismo”.
Per questo il rito elettorale non è da intendere come laico confronto tra persone e programmi, ma come una sorta di giudizio di Dio affidato al popolo. “Il contratto” (poi) con gli italiani… presentato come tavola fondativa di un patto indistruttibile e sacro… è la sanzione dell’avvenuto riconoscimento del salvatore da parte dei salvati, da parte del suo popolo.
Ed anche l’amore si connette al tema della discesa.
“Le parole d’amore, spostate dal campo che è loro proprio, cioè quello delle relazioni interpersonali concrete, riversate nel campo della politica, cioè dei rapporti impersonali astratti” diventano “parole violente, destinate a provocare divisioni radicali contrapposizioni e incomunicabilità”.
Si passa poi al lessico della carità.
Viviamo in tempi di doni, che attraverso uno spostamento di senso può portare ad una lingua che appartiene alle relazioni padronali e servili. L’essenza del dono è la gratuità e crea legame sociale, in assenza del quale non ci può essere convivenza, ma solo competizione distruttiva. Se il dono si fa con la mano del potere è davvero un dono?
Il dono, che è frutto di una concessione graziosa, rimanda ad un rapporto servile..se poi il dono è reso pubblico, pubblicizzato, diventa violenza a fini pubblicitari.
Se viene esibita, la donazione diventa interessata ed ha come corrispettivo la ricerca del consenso. L’uno accetta il dono (posti, retribuzioni, finanziamenti, privilegi ). sapendo di dover restituire dedizione all’altro e così la riconoscenza si solidifica in fedeltà.
E mantenuti saranno coloro che per interesse accettano di entrare in questa relazione disuguale tra padrone e servi. Persino la parola italiani può acquisire un significato particolare nel momento in cui entra a far parte di un lessico dell’ostilità. “Un partito degli italiani”, è di per sé un ossimoro, perché partito indica una parte, mentre italiani dovrebbe indicare il tutto. “ In sostanza questo uso di italiani vuol dire che non tutti sono al medesimo livello di cittadinanza” e produce un senso di superiorità e arroganza nei confronti degli altri, che sarebbero i cd. Anti-italiani.
La “discesa in politica” sul piano diacronico contrappone un prima e un dopo, “ una prima repubblica” concentrato di tutti i mali del paese, che coincide “ con il tarlo del comunismo sinonimo di morte che cospira contro la rinascita” Scendere in politica” diventa “scendere in campo”come campo di battaglia, non come confronto, ma come eliminazione del nemico. Avallare passivamente l’espressione “ seconda repubblica” finisce per riconoscere un’idea salvifica e “ chi impugna la bandiera della “salus rei publicae” può presentarsi come il corifeo della rigenerazione politica e bollare come rottami da prima repubblica quelli che dissentono.
Si può riflettere anche sull’uso ripetuto di un avverbio come “assolutamente”. Fa parte del linguaggio dell’esasperazione che la discesa salvifica porta con sé. Ciò che è assoluto esclude “il relativo”, che è ciò che costringe al confronto e induce a pensare. Invece occorre schierarsi “assolutamente”, categoricamente. “Chi non è con me è contro di me”: i rapporti tra gli esseri umani e la concezione della vita sociale e politica appartengono dunque ad un modo bellico di pensare.
Altre parole chiave “fare-lavorare-decidere.”
Nell’azienda Italia tutti devono “fare sistema”,”fare squadra” e promuovere una scuola che ha come anima esecutiva “inglese, internet e impresa”, la scuola del “saper fare”. La logica aziendalista, trasportata in politica fa dell’efficienza l’esigenza principale: efficienza per l’efficienza. Ridurre la politica al fare, alla mera esecuzione significa sottrarre i fini alla vista della democrazia o mascherarle con parole così generiche da non significare nulla.
Fare, lavorare, decidere da mezzo diventano fine.
Non mancano poi considerazioni su “le tasche degli italiani” e un capitolo finale sul “politicamente corretto” in un oggi in cui è politicamente corretto il dileggio, l’aggressione, la scurrilità. E’ politicamente corretta la semplificazione fino alla banalizzazione dei problemi comuni, la rassicurazione ad ogni costo, l’occultamento delle difficoltà… e i cittadini comuni, non esperti di cose politiche, sono trattati non come persone consapevoli, ma sudditi, anzi come plebe. E questo è il politicamente corretto.
Ho trovato interessanti le argomentazioni di questo pacato pamphlet che in modo serrato ci fanno capire quanto siamo immersi in una lingua che ci sovrasta, elaborata e diffusa dai circuiti della comunicazione, carica di sottintesi che ci avvolgono come in intreccio di significati che sembrano indipendenti da noi, perchè li accogliamo come ovvi , non contestabili.
Un argomento analogo è affrontato dal magistrato, senatore e scrittore Gianrico Carofiglio, che nel suo recente libro “La manomissione delle parole” parla sempre di logoramento e perdita di senso delle parole, per cui auspica una manutenzione delle parole per restituire loro la forza originaria. Ma di questo potremmo parlare in un altro post.
Per ora che ne pensate del discorso di Zagrebelsky?
Gustavo Zagrebelsky, Sulla lingua del tempo presente, Einaudi 2010 pp.58
Rispondi