Afghanistan, la storia dentro una foto

Medevac in Afghanistan -JAMES NACHTWEY FOR TIME
Due bambini afghani vengono soccorsi su un elicottero ambulanza dell'esercito Usa

WING OF MERCY: MEDEVAC IN AFGHANISTAN – TIME MAGAZINE
La foto di James Nachtwey che vedete qui sopra fa parte di un servizio pubblicato da Time Magazinequalche settimana fa: il fotografo ha seguito l’equipaggio di un’ambulanza aerea (un elicottero Black Hawk) “medevac” dell’esercito degli Stati Uniti in Afghanistan.

Nella foto sono ritratti due bambini afghani feriti, soccorsi dal personale del medevac.
Come accade spesso davanti alle fotografie molto intense in esse “leggiamo” delle storie.

Per esempio qui leggiamo la cura dei soccorritori per i bambini feriti, la sofferenza e la paura dei bambini, l’incontro fra lo stupore per una guerra quotidiana vissuta sulla propria pelle e le domande sul proprio ruolo di soldati-soccorritori in una guerra lontana migliaia di km da casa propria.

Nella foto ci colpisce (o almeno credo, io ne sono stato trafitto come trafiggerebbe il Punctum di Roland Barthes) l’occhio spalancato di uno dei due bambini feriti. E attraverso quel punto la foto e il suo significato si espandono.

Barthes scriveva:

Così il particolare che mi interessa non è, o per lo meno non è rigorosamente, intenzionale, e probabilmente bisogna che non lo sia; esso si trova nel campo della cosa fotografata come un supplemento che è al tempo stesso inevitabile, non voluto; esso non attesta obbligatoriamente l’arte del fotografo; dice solamente che il fotografo era là,oppure, più poveramente ancora, che non poteva non fotografare al contempo l’oggetto parziale e l’oggetto totale. […]

E se poi leggiamo (nel senso più proprio di “leggere delle parole”) la storia, il testo associato a questo servizio, riusciamo a riempire in modo piuttosto accurato questa “espansione” della foto, attraverso l’occhio del bambino.

Qui sotto c’è un’altra foto dal servizio di Nachtwey. Qui vediamo due marine americani che portano in braccio i due bambini feriti dell’altra foto, li trasportano verso l’elicottero di soccorso.

JAMES NACHTWEY FOR TIME
Un marine porta tra le braccia un bambino ferito

E’ stata, scopriamo, una vera e propria “normale” azione di guerra quotidiana: sulla pattuglia di marine qualcuno apre il fuoco. Via radio i soldati Usa chiamano un elicottero in appoggio (questa è una macchina da guerra, probabilmente sempre un Black Hawk) che fa fuoco sull’area da dove arrivano gli spari.
Chi ha sparato sui marines era nelle vicinanze di un gruppo di bambini, due dei quali sono i feriti della foto. Nachtwey, che ha descritto la scena, nota tra parentesi: “devo credere che i marines non sapessero che nei pressi dello sparatore ci fossero dei bambini”. Poi, nella confusione e shock che sempre segue una sparatoria dove si rischia la vita, i marines pensano di soccorrere e proteggere i bambini feriti. Anche lo sparatore se fosse sopravvissuto, nota Nachtwey, sarebbe stato soccorso.

Dunque quelli che appaiono nella foto come i soccorritori sono stati anche, pochi minuti prima, le cause del fuoco che ha falciato i civili.

Ecco, questo è un piccolo pezzo della storia che sta dentro e dietro quella fotografia: con i dilemmi morali, le ambiguità, la complessità della condizione umana in guerra.

Nel servizio di Nachtwey ci sono altre foto e altre storie. Per esempio l’immagine del marine soccorso sull’eliambulanza, dopo che l’esplosione di una IED (improvised explosive device, la bomba rudimentale, roadside bomb, l’arma che “firma” questa guerra afghana) lo ha ferito gravemente, ferita che gli costerà entrambe le gambe.

In un articolo pubblicato dal Guardian la scorsa estate lo scrittore Geoff Dyer (del quale avevamo parlato lo scorso agosto a proposito della “memoria” della Grande Guerra e che si è occupato di fotografia narrazione in un altro libro molto bello: The Ongoing moment) diceva che la guerra in Iraq e quella in Afghanistan “non sono guerre da fotografo” (per la verità Dyer riporta il parere di un reporter di guerra, George Packer), nonostante arrivino quantità illimitate di fotografie da quei conflitti. Perché?

Queste sono, dice, guerre segnate dalle fotografie non dai fotografi.
Il fatto è, secondo Dyer, che siamo forse al crepuscolo del fotografo come “romanziere” (o narratore), come lo furono Robert Capa (per la guerra di Spagna o lo sbarco in Normandia) o Tim Page (per il Vietnam): veri e propri “romanzieri visuali”; capaci di lasciare una “identità visuale” su quello che ritraevano con la macchina fotografica.
Forse, conclude Dyer, anche perché le foto di queste guerre contemporanee sono ovunque, sono ubique, sono troppe forse per poter ricordare lo stile di un fotografo.

Certo ci sono le eccezioni, alcune citate dallo stesso Dyer: per esempio Sean Smith, Michael Kamber, Tim Hetherington.
Ma forse è anche una questione di attenzione da parte di chi guarda o meglio di chi “legge” le fotografie. Proprio perché sono così tante le foto che arrivano dai conflitti, rischiamo di guardarle tutte superficialmente, senza prestarci attenzione, senza “leggerle”.

Ecco, le foto di Nachtwey forse possono essere parte di queste eccezioni – in esse mi sembra ci sia ancora forza narrativa – e nello stesso tempo ci suggeriscono un metodo per ritornare a scoprire la forza di questo media: non restando in superficie, non limitandosi a guardare distrattamente. Le foto meritano di essere lette. Quelle vuote meglio lasciarle perdere.

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2 risposte a “Afghanistan, la storia dentro una foto”

  1. Un frammento di tempo per cogliere l’istante colmo di significato. Una foto, una storia.
    A volte è incredibile quante cose si possanon cogliere in una foto e, come dicevi tu, quegli occhi trasmettono tutta la sofferenza, il dolore e finanche scoramento.
    Leggo per la prima volta; la tristezza mi ha avvolta, ma non bisogna chiudere gli occhi di fronte a verità.
    Grazie

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  2. Scusa, ho deciso di linkarti, se non ti garba dimmelo.

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