Intendo dire che fa parte di quella categoria di libri che questo blog dovrebbe “adottare”; assume infatti il punto di vista del lettore. Senza spocchia e puzza al naso Wood mette le mani nei testi (romanzi e racconti) della narrativa moderna – da Cervantes a contemporanei come Pynchon, Coetzee, Roth, Sebald o Foster Wallace, sono 100 i romanzi o racconti citati – per individuare i meccanismi narrativi usati dagli scrittori per costruire quelle meraviglie che tanto piacere ci offrono.
Intendiamoci non è una serie concentrata di critiche letterarie ai romanzi citati: no i romanzi e i racconti sono usati per illustrare esempi di tecniche di scrittura e soprattutto per aiutarci a vedere l’effetto che queste tecniche hanno sulla pagina quando noi leggiamo.
Wood quindi non inventa nulla, solo ci indica cose che anche noi abbiamo notato ma che spesso ci siamo limitati ad assaporare senza chiederci come “funzionano”. Oppure che semplicemente ci siamo dimenticati dopo averle lette e magari studiate.
Toglie insomma lo sguardo analitico dal mondo dei manuali universitari e delle scuole di scrittura e invita tutti i lettori a usarlo.
Per esempio, il prodigio della voce che narra viene affrontato da Wood soprattutto avendo al centro il concetto di “discorso indiretto libero” o di “ironia drammatica”, con tutte le sue possibili sfumature e ambiguità e i diversi effetti artistici ottenuti con queste sfumature e ambiguità: come quando ci chiediamo quali parole del pensiero o del discorso di un personaggio siano semplicemente riportate dal narratore e quali invece siano un voluto intervento del narratore stesso per dirci qualcosa di più sul personaggio o sull’ambiente. Oppure quando nella voce del narratore che ci riferisce qualcosa irrompe senza avvertimenti l’eco della voce di un personaggio. Nei grandissimi queste due voci si annodano nei periodi e solo la lettura attenta e magari ripetuta riesce a districarle e cogliere le differenze.
Era il loro nipote prediletto, il figlio di Ellen, la sorella maggiore defunta, che aveva sposato T.J. Conroy, della Capitaneria di Porto
In questo passo di “Morti” di James Joyce, o meglio il narratore del racconto, usa lo stile indiretto libero per dar voce (aveva sposato… della Capitaneria di Porto) al modo di pensare delle due zie di Gabriel, il nipote preferito, al loro perbenismo borghese che le spinge sempre a pensare al cognato in relazione alla posizione sociale che ricopriva. Il passaggio dalla voce del narratore a quella delle due sorelle è privo di marcatori, non ci viene segnalato, è il lettore che lo deve cogliere.
Il libro di Wood è pieno di questi passaggi ed esempi: per esempio sull’efficacia dei dettagli e i diversi tipi di dettagli, su qualche errore o goffaggine degli scrittori, sui personaggi, sul soliloquio, solo per citarne alcuni.
O per esempio la tecnica con cui Flaubert perfeziona la giustapposizione di dettagli abituali e dettagli dinamici, la convergenza di eventi a breve e lungo temrine nella stessa descrizione, di importanti e insignificanti e messi apparentemente alla rinfusa; ora questa tecnica è usata con il massimo di effetto drammatico dalla narrativa contemporanea, come il giallo, il noir o anche il reportage di guerra.
Obiettivo del critico è di evitare di essere pedante e nello stesso tempo di confortare ogni idea espressa con esempi robusti: il tutto rende la lettura molto piacevole, costringe ad annotare e, soprattutto genera ulteriore voglia di leggere e magari ri-leggere molti molti libri.
Wood scrive sul New Yorker e nella contesa attuale fra critici sulla “rilevanza o meno del romanzo” è decisamente e ovviamente schierato a difesa della narrativa di finzione. Al punto che potremmo considerare questo libro (uscito negli Stati Uniti nel 2008) come un piccolo promemoria sulla grandezza e la bellezza della fiction. Un promemoria scritto da un lettore per i lettori.
Effetto analogo mi hanno fatto, negli ultimi anni i libri di Milan Kundera dedicati al romanzo e alla narrazione.
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