Mio nonno Peppino (classe 1898) mi portò, quando ero ragazzino, due o tre volte sulla Bainsizza, a Redipuglia e sul Carso, e poi a Vittorio Veneto. Il ricordo della Grande Guerra per lui era ancora vivo e forte e presente, quasi sessanta anni dopo l’armistizio del 4 novembre del 1918.
Sarà forse per questi ricordi passatimi dal nonno che la Grande Guerra è una mia fissazione, che ritorna spesso nelle letture.
In queste settimane mi accompagna un saggio del 2008 dello storico inglese Mark Thompson, La guerra bianca, Vita e morte sul fronte italiano, 1915-1918 (Il Saggiatore).
Credo che fra i numerosi pregi di questo libro bellissimo, il più incisivo sia la sua capacità di farmi ripensare a mio nonno nel modo più affettuoso e allo stesso tempo comprensivo e razionale, regalandomi forse più di tutte le mie precedenti letture sulla prima guerra mondiale la sensazione di poter avvicinare sia l’esperienza umana dei soldati sia il quadro generale del conflitto.
Thompson alterna sguardi ravvicinati sulle vicende dei piccoli e grandi uomini, al fronte, nel “comando supremo”, nelle retrovie, e sguardi d’insieme sulle battaglie, gli approvvigionamenti, le tattiche assurde degli “assalti frontali” di Cadorna, la lotta degli uomini con i nemici ma anche con la natura, sulle alture di fronte all’Isonzo, nella neve dolomitica, sulla pietra del Carso, nel fango.
Thompson conosce molto bene la cultura e la società italiana di allora, segue scrittori “irredentisti” come Scipio Slataper e le loro tragiche illusioni, giornalisti come Luigi Barzini che raccontano fandonie propagandistiche, nascondendo l’inferno del fronte, restiutisce il clima del “vitalismo” italiano, con la retorica demagogico-decadente di D’Annunzio che contribuì a portare il paese in guerra, prima, e poi aprì la strada al fascismo.
Ovviamente il punto di vista del nonno Peppino su questa guerra non era così complesso; piuttosto, era istintivo, potremmo definirlo inconsapevolmente vicino a quello di Giuseppe Ungaretti: poca retorica e tanta commozione e l’intuizione di essere stato dentro un evento epocale.
Il nonno venne aiutato dalla statistica: era un artigliere nella Seconda Armata, e, per quanto terribile e pericoloso fosse, essere un artigliere significava avere qualche probabilità in meno di morire rispetto a quelle che aveva un fante. Naturalmente, nei viaggi e nei racconti, il nonno si soffermava soprattutto sulla linea di difesa sul Piave, dopo la ritirata di Caporetto e sul riconoscimento che ai reduci venne concesso: Cavaliere di Vittorio Veneto.
Poche, pochissime volte gli ho sentito raccontare momenti intimi: un compagno morto, l’orrore delle trincee spazzate dai bombardamenti. Nella sua mente era impresso il rumore assordante delle “bombarde”, i lanciabombe inventati in quella guerra e che lui maneggiò per quei due anni e mezzo di combattimenti (venne chiamato infatti nel 1916).
E poi cercava continuamente contatti con chi aveva condiviso quell’esperienza con lui. Ricordo le visite a questi uomini segnati come lui, gli abbracci. Poi si ritiravano in un angolo di un giardino o in una stanza e, lì , fra loro, ritornavano veramente su quelle memorie, aprendosi, credo.
Dal nonno e dai suoi amici non ho mai sentito, ovviamente, una critica al senso di quella guerra, alla sua condotta da parte di Cadorna, al vero e proprio colpo di stato che nel 1915 trascinò nel conflitto un paese inconsapevole.
D’altra parte, il nonno Peppino non disse nemmeno mai nulla che lo accomunasse all’interpretazione fascista della Grande Guerra e alle sue conseguenze, come la cosiddetta “vittoria mutilata”. No, niente di tutto questo, solo sommesso e commosso ricordo.
Lettura inattuale, forse, questa del libro di Thompson.
Lettura che però restituisce il valore della Storia.
Fra quattro anni sarà un secolo dallo scoppio di questa guerra che aprì veramente il secolo ventesimo, decimò una generazione di europei e preparò l’avvento dei fascismi e, quindi, della seconda guerra mondiale. Mio nonno morì nel 1976, sessanta anni dopo il suo arrivo come recluta sul fronte dell’Isonzo. Nel 2005 è invece morto Carlo Orelli, a 110 anni, l’ultimo reduce italiano delle battaglie dell’Isonzo. In questi anni se ne sono andati anche gli ultimi reduci francesi e inglesi.
La scorsa settimana, in autostrada verso Trieste, mi ha colto un brivido rivedere prima il grande monumento bianco di Redipuglia e poi le pietre carsiche: ho ripensato al nonno e ho sentito gratitudine per questo libro di Mark Thompson.
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