Cime Tempestose di Emily Brontë è un romanzo d’amore: è innegabile. Ma è duro come uno schiaffo e tagliente come un coltello. Come l’ha definito Charlotte Brontë (sorella di Emily e autrice di Jane Eyre) è “un’opera moorish: selvatica e nodosa come una radice d’erica”. E potente. (sempre Charlotte: “L’artista trovò un blocco di granito su una brughiera solitaria: guardando s’avvide che da quella scheggia di roccia si poteva ricavare una testa, selvaggia, scura, sinistra, una forma con almeno un elemento di grandezza: la potenza”).
Virginia Woolf scrive (nel capitolo “Jane Eyre e Wuthering Heights”, tratto dal saggio The Common Reader 1925-1935, Einaudi): In Cime tempestose l’io è assente. C’è l’amore. Ma non è l’amore degli uomini e delle donne. Emily si ispirava a una concezione più generale. L’impulso che la spronava a creare non aveva origine nella sua sofferenza o nei torti subiti. Ella volgeva lo sguardo verso un mondo in preda al caos e sentiva in sé la forza di conferirgli unità in un testo”.
Un’ipotesi
Questo libro non piace agli uomini. O meglio: non lo leggono proprio, non vi si avvicinano. (Ovviamente è solo un’ipotesi confermata dall’esperienza di una cerchia di amici e conoscenti e spero di essere largamente smentita). Perché?
Cominciamo con il dire perché piace alle donne (anche qui, non basta il mio parere, vorrei conoscere il vostro). Nessuna donna, almeno per un attimo, non è stata soggiogata da Heathcliff o non ha desiderato essere amata con quella forza assoluta, inestinguibile, implacabile che anima il protagonista maschile del romanzo. Contro la sua volontà. Catherine è la sua dannazione (“Devo rammentare a me stesso di respirare… devo quasi rammentare al mio cuore di battere! Ed è come comprimere una molla dura: è a viva forza che compio il minimo atto che non sia suggerito da un unico pensiero; ed è a viva forza che noto alcunché di vivo o di morto, che non sia associato a una sola idea universale. Ho un solo desiderio, e tutto il mio essere e facoltà anelano a raggiungerlo. È tanto che tendono ad esso, e così indefessamente, che sono convinto che sarà raggiunto, e presto, perché ha divorato la mia esistenza: sono assorbito dal presagio del suo adempimento”). Il suo amore, questa furia indomita, è una pulsione di morte (e Freud, ripercorrendo il topos di Eros e Tanatos, non diceva che la libido nel profondo è un istinto di morte e di annullamento?).
Catherine vive lo stesso tormento: “Se tutto il resto dovesse perire e lui rimanesse, io continuerei a essere; e se tutto il resto rimanesse e lui fosse annichilito, l’universo si trasformerebbe in un potente sconosciuto; non me ne sentirei più parte”). La ricerca del compimento di questo amore, che non avviene e non può avvenire, costituisce la trama e lo scheletro del libro.
È dunque una storia di assoluto, come dice ancora la Woolf “di una forza insita nell’umana natura, che la innalza in presenza di ciò che è grande, a conferire al libro una statura straordinaria in mezzo agli altri romanzi”.
Cos’è che impedisce quindi agli uomini di essere incuriositi da questo libro? Un pregiudizio letterario? Un titolo troppo romantico (e qui intendo nel senso più popolare del termine, perché certo se parliamo di Sturm und Drang, questo è senz’altro un libro romantico)? Il fatto che, tutto sommato, viene considerato ancora roba da donnicciole?
E ancora, e lo chiedo a voi che avete letto Anna Karenina, Madame Bovary, Il Rosso e il Nero, I dolori del giovane Werther. Non sono anche queste tutte storie d’amore? Ma Tolstoj, Flaubert, Stendhal e Goethe sono uomini. Quindi?
Siamo in pieno inverno: è un buon momento per iniziare questo libro. Se qualcuno lo farà e poi avrà voglia di parlarne, mi troverà qui. Io, come scrive Virginia Woolf, leggendolo ho sentito “il soffio del vento e il boato del tuono”. Ma mi piacerebbe conoscere l’opinione anche di chi non l’ha sentito affatto. O di chi non l’ha sentito, ma immagina come ci si potrebbe sentire, perché come scrive Umberto Eco nelle postille al Nome della rosa: “Quando accendevamo un falò sul prato in campagna, mia moglie mi accusava di non saper guardare le scintille che si levavano tra gli alberi e aliavano lungo i fili della luce. Quando poi ha letto il capitolo sull’incendio ha detto: “Ma allora le scintille le guardavi!”. Ho risposto: “No, ma sapevo come le avrebbe viste un monaco medievale”.
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