In ritardo e con qualche fastidio ho scoperto quel che Mark Fisher (1968-2017) scrisse di W.G. Sebald (1944-2001). La sua lettura di Gli anelli di Saturno è però una conferma della necessità di rileggere. E spiega quel che intendiamo quando diciamo che un gruppo di lettura dovrebbe essere anche un gruppo di ri-lettura.
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Da quando l’ho incontrata per la prima volta – ormai son passati quasi 25 anni – la scrittura raffinata e avvolgente di W.G. Sebald è come una coperta morbida e calda che ti abbraccia in inverno, o come un alito di vento profumato in un crepuscolo estivo. Benché le storie dentro i libri di Sebald siano piene di tristezza, incertezze, evochino la Shoah, l’emigrazione, la solitudine, i viaggi in non-luoghi, e siano colme di nostalgia.
Leggere Sebald è come partecipare a un gioco di malinconia: è il piacere del passato tra finzione e realtà, dei lunghi racconti affidati alla voce di un personaggio o a un discorso indiretto libero che culla, delle digressioni in altre storie, delle fotografie sgranate; un gioco che ci avverte che per qualche ora ancora siamo al sicuro, siamo comunque nel gioco della messa in opera del mondo. (Certo, a volte, nel sogno o in modeste rêverie, si crede persino di voler giocare solo questo gioco!).
A ogni modo, Sebald ci accoglie ogni volta che lo leggiamo. Vorremmo avere in certi momenti la stessa voce dei suoi narratori, che dicono “io” ma sono idealizzazioni di un io che non conosciamo e che non riconosceremo mai.
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Succede, come dicevo, che mi sono imbattuto in una raccolta di commenti e recensioni di Mark Fisher uscita nel 2014, poco più di due anni prima della sua morte (In italiano: Spettri della mia vita. Scritti su depressione, hauntologia e futuri perduti, Minimum Fax, 2019) dentro la quale, fra saggi dedicati alle culture musicali e cinematografiche e approfondimenti che applicano proprio alla musica alcune interpretazioni critiche delle idee di Jacques Derrida a proposito di hauntologia, se ne trova uno che ha a che fare con W.G. Sebald. In particolare con Gli Anelli di Saturno (1995) che è forse il libro di Sebald che più ho amato.
Ora, è importante dire che il saggio di Fisher è dedicato più che altro al film diretto da Grant Gee, Patience (After Sebald), uscito nel 2012 e ispirato a sua volta a Gli Anelli di Saturno e più in generale ad alcuni temi cari al suo autore.
Il film tuttavia si occupa soprattutto dei luoghi, nel Suffolk, nei quali il narratore messo in scena da Sebald in Gli Anelli di Saturno cammina. Non stiamo ora a discutere se e quanto questo libro di Sebald sia autobiografico, anche se la scelta di mettere in copertina una foto dell’autore in cammino ha sin dall’inizio influenzato troppo l’interpretazione. Il punto che ci interessa è che dalla lettura che feci del libro di Sebald nel 2011 mi è rimasto il ricordo del tempo e dei personaggi che animano il libro, di molti molti luoghi evocati, ben al di là dei luoghi del Suffolk nei quali il viandante-narratore di Sebald cammina.
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Per fare un esempio del procedere di Sebald, si può citare quel che scrive a proposito di Roger Casement, uno degli uomini messi a morte dagli inglesi durante la repressione seguita alla Easter Rising del 1916 a Dublino. Fervente militante per l’indipendenza dell’Irlanda, dalla vita avventurosa in Africa e in Sud America. luoghi nei quali aveva formato la sua coscienza e l’attivismo antiimperialista, davanti allo sfruttamento della manodopera schiavizzata dagli europei, in particolare nel Congo belga. (Su Casement è molto bello un libro di Mario Vargas Llosa, Il sogno del celta, purtroppo ormai fuori catalogo). Sebald peraltro intreccia la storia di Casement alla biografia di Joseph Conrad e alla sua conoscenza del Congo. Ebbene, lo spunto di tutto è un documentario della BBC che Sebald inizia a guardare nella camera d’albergo di Southwold durante il suo viaggio a piedi, quindi il legame coi luoghi è tutt’altro che stringente.
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La lettura che invece ha fatto Fisher del libro di Sebald sembra più il risultato di un’attesa mal riposta, come se avesse letto un libro di psicogeografia non riuscito.
Scrive infatti che sperava che tale lettura sarebbe stata un’esplorazione degli inquietanti spazi numinosi del Suffolk. Invece, ci ha trovato qualcosa di molto diverso: un libro che “arrancava immusonito attraverso gli spazi del Suffolk senza osservarli realmente, che offriva miserabilismo borghese a buon mercato, un disprezzo banale in cui gli insediamenti umani vengono di norma bollati come sciatti e gli spazi non umani come opprimenti”. Nel lavoro di Sebald il paesaggio è, secondo Fisher, “una trovata debole e i luoghi servono da innesco per divagazioni letterarie che ricordano più le svogliate fantasticherie di un bibliotecario che un resoconto di viaggio”.
Il che è vero, ma, vorrei aggiungere, è uno dei motivi per cui Gli anelli di Saturno è un libro così bello. E, a suo modo, Fisher lo riconosce, indirettamente, quando dice che “Sebald sembra aspirare allo stile di scrittori come Borges”.
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Poi però Fisher continua e sostiene addirittura che il culto che si è creato attorno a Sebald in poco tempo sembra ansioso di “venerare le sue frasi ben cesellate”. E soprattutto aggiunge che Sebald “offre una difficoltà facile, un modello anacronistico e superato di ‘buona letteratura’ che opera come se molti degli sviluppi della fiction sperimentale e della cultura popolare del ventesimo secolo non si fossero mai verificati”. Questo mi sembra il punto più interessante della critica di Fisher.
Il quale riconosce d’altra parte che lo status del libro non è definito da Sebald: autobiografia, romanzo, resoconto di viaggio? e ne ammette una certa “giocosità” proprio nello stare al confine dei generi. E tuttavia, aggiunge, il contenuto non è per niente giocoso. “Sebald ha dovuto mantenere la faccia seria per poter rendere efficace la sua ‘antichizzazione’”.
Fisher ammette anche che i romanzi di Sebald si prestano solo con imbarazzo ai dibattiti sul luogo e sul suo incanto, “perché la sua opera riguarda più lo sradicamento e il disincanto che il suo contrario”.
Appunto.
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Dunque, ora si tratta di rileggere Gli anelli di Saturno, per cogliere un punto di vista che avevo tenuto lontano, quello della presunta difficoltà facile, cui fa cenno Fisher, della antichizzazione dei luoghi, del modello anacronistico di buona letteratura che in fondo ci gratifica senza chiederci sforzi. Insomma, è venuto il momento di rigiocare con Sebald, provando a farlo con regole diverse.
Lo stesso Fisher nel finale del suo saggio dice che la forza pacata del film di Gee lo ha spinto a dubitare del suo stesso scetticismo, convincendolo “a tornare ai romanzi di Sebald, alla ricerca di ciò che altri avevano visto ma che fino a oggi a me è sfuggito”.
Dunque rilettura. Peccato che Fisher non abbia scritto altro, almeno per quanto ne sappia io, su Sebald. Peccato che non abbia descritto la sua rilettura. Proverò a farlo io, tenendo dunque conto dei suoi appunti. Magari potremmo anche farci un gruppo di lettura (o di rilettura, appunto).

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