Se scopriamo che il capitalismo del libro non è necessariamente migliore degli altri

L’umiliazione del lavoro editoriale arriva da lontano

L’indignazione – sacrosanta – per il brutale sfruttamento (e la violenza fisica sui) dei lavoratori di una grande tipografia in Veneto, che lavora con editori importanti forse mostra anche un po’ della nostra ingenuità o forse anche un po’ della nostra ipocrisia.

È come se fino a ieri avessimo pensato che il libro e la catena di lavoro e lavoratori che lo rende possibile fossero per qualche motivo – per una loro essenza buona – immuni dallo sfruttamento nelle sue forme tipiche del capitalismo contemporaneo nella ricca Europa.

L’industria del libro è solo indietro rispetto alla logistica

Forse semplicemente non abbiamo saputo vedere o capire che l’industria del libro è solo, diciamo così, indietro in questa trasformazione rispetto alla logistica o all’agricoltura e agli altri settori – come la ristorazione, il turismo, la cura delle persone – più avanti nel processo di compressione e erosione dei diritti economici, sociali e civili del lavoro da parte del capitale. Mentre adesso è come se i fatti estremi della tipografia illuminassero il cammino sul quale è avviata anche l’industria del libro.

Vedere ciò ci fa orrore, non l’avevamo messo in conto.

Perché pensavamo che questo processo – l’insieme di precarizzazione, riduzione sistematica del prezzo pagato per il lavoro prestato, invasione del tempo libero da parte del tempi di lavoro, arbitrio nell’imposizione di ritmi e obiettivi, ricatto per il costante rischio di perderlo questo maledetto lavoro – avesse per miracolo risparmiato i nostri amati libri?

Non sappiamo forse che la precarizzazione se non viene fermata trascinerà con sé tutti i settori e una buona parte di lavoratori?

Non sapevamo che l’industria editoriale è piena di stagisti ricattati; di free lance sottopagati a cartella; di contratti a tempo determinato, rinnovati anno dopo anno, persone tenute sul filo dal timore di essere lasciati a casa a ogni scadenza? E vale non solo per il libro, tanto di più è così nel giornalismo, negli uffici stampa, negli altri ambiti dell’editoria. 
Luciano Bianciardi non ci mise in guardia 60 anni fa da questa illusione?

Ci siamo rassegnati da tempo all’idea che i lettori non siano necessariamente migliori dei non lettori – in questo caso di solito si citano alcuni dei gerarchi nazisti che erano divoratori di libri. Senza illusioni e senza ingenuità dovremmo affrontare adesso l’idea che il libro che stiamo leggendo puzzi di ingiustizia. Per sovrappiù magari ce l’ha portato a casa un fattorino di una cooperativa che lavora per Amazon.

(Immagine: Antonio Dacosta, Não há sim sem não – O Eremita, 1985)

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