Hannah Arendt ci ha insegnato che Hitler e i nazisti hanno lasciato in eredità l’idea che sia possibile scegliere con chi coabitare, una eredità terribile. Coabitare la terra, scrive Donatella Di Cesare, ricordando la lezione di Arendt, impone invece l’obbligo permanente e irreversibile di coesistere con tutti coloro che, più o meno estranei, più o meno eterogenei, sulla terra hanno uguali diritti.
“[…] [N]ella ricerca del filo che lega espulsioni e camere a gas, Arendt imprime una svolta politica – [soprattutto nel libro sul processo a Eichmann] – al tema dell’abitare che, non per caso, diventa anche quello del coabitare. Ecco allora il crimine in tutta la sua abissale mostruosità: aver preteso di stabilire con chi coabitare”
Il sottopasso fra via Sammartini e Ferrante Aporti
Chi abita o vive per qualche motivo dentro Milano conosce i sottopassi a nord della Stazione centrale, quelli che uniscono le vie Sammartini e Ferrante Aporti trafiggendo la struttura annerita da anni di smog e polveri, sopra la quale corrono le rotaie che conducono i treni dentro e fuori città.
In uno di questi sotterranei, per alcune settimane di questa seconda primavera di pandemia, la notte si sono accampati – un verbo che suona inadeguato, me ne rendo conto, forse è meglio dire si sono rifugiati, che forse colpisce più il bersaglio per quel rimando diretto al sostantivo “rifugiato”, ma accamparsi suona anche un po’ come sforzo per abitare da qualche parte – decine di giovani e meno giovani uomini. Non so esattamente perché, ma dopo alcune settimane il sottopasso si è quasi svuotato, da inizio aprile sono molti meno. Succede anche in altri momenti dell’anno, il popolo dei “Senza fissa dimora” arrivati da poco in città, è guidato da dinamiche complesse, incomprensibili o difficili da decifrare.
Questi uomini dormivano sul marciapiede di destra del sottopasso, di mano destra secondo il senso unico della strada. Alcuni sdraiati perpendicolari ai muri, altri paralleli. In genere il paradigma è: se sono solo dormo addossato alla parete, con il corpo parallelo al muro; se siamo due o più, dormiamo perpendicolari, occupando quasi tutto il marciapiede per la larghezza, tanto, per i rari passanti della sera, c’è libero il marciapiede sull’altro lato della strada.
Con chi dorme in questo sottopasso è facile parlare se ti fermi, se offri loro del cibo o il tè caldo, se indossi una pettorina che indica una qualsiasi delle associazioni di volontariato che mandano le cosiddette Unità di strada la notte a prestare un modesto soccorso a queste persone: se ti riconoscono sono disposti a parlare.
In questa primavera nel sottopasso si incontrano ragazzi molto giovani, pakistani e afghani e poi anche somali e eritrei. Molti di loro, dopo aver ringraziato per il cibo che gli è stato offerto, chiedono pantaloni, felpe, sacchi a pelo, e, soprattutto, scarpe e calze. Preferiscono le scarpe sportive. Sono più comode e leggere. E premono meno sulle piaghe che molti di loro hanno ai piedi. Parlano spesso dei loro piedi. È un argomento efficace per dire delle loro fatiche, dei viaggi infiniti – M., un ragazzo pakistano di 22 anni, è arrivato da un villaggio al confine con l’Afghanistan, mi ha detto che ha impiegato tredici mesi per arrivare fino a Milano. Quei piedi sono le storie con le quali in queste settimane ho conosciuto alcuni di loro. Uno di loro piangendo mi ha detto che dopo un viaggio così lungo e terribile, a piedi in Turchia e nei Balcani, si aspettava che qualcuno in Italia proteggesse i suoi diritti, i diritti che pensava di avere arrivando in Europa, la patria dei diritti umani, così pensava all’Europa. Un luogo dove credeva di avere il diritto di coabitare con tutti i residenti.
Il filo che lega i partigiani ai senza-diritti
Uscendo dal sottopasso, la scorsa settimana ho pensato al filo che dovrebbe legare questi ragazzi – e tutti quelli che non ce la fanno e che a migliaia muoiono sulle rotte che li portano in Europa – e i ragazzi ricordati sulle lapidi dei partigiani, assassinati dai nazisti e dai loro servi repubblichini, che popolano di memoria e di ideali tante strade e piazze di Milano.
Riusciamo a tenere insieme, in un grande cerchio di inclusione, di diritti e di cura, gli ideali della Resistenza e la vita dei rifugiati, di chi fugge dalla povertà e dalla violenza e arriva nei paesi che abitiamo e che non abbiamo motivo né tanto meno diritto di considerare nostra esclusiva allontanando chi arriva da altri luoghi?
Senza dimenticare ovviamente l’unicità del nazismo e del fascismo, possiamo ricordare e mantenere attuale il regalo che ci hanno fatto i partigiani battendoci politicamente per i diritti di tutti, non confinando la cura alla beneficenza e al volontariato un paio di volte alla settimana, ma battendoci perché ci sian, passo dopo passo, più diritti per tutti anche per coloro ai quali lo Stato nega il diritto di abitare?
Se fossimo tutti stranieri residenti?
E per arrivare, magari, ad avvicinare l’idea che, come ha scritto Di Cesare in Stranieri residenti. Una filosofia della migrazione, (Bollati Boringhieri, 2017), dovremmo tutti sentirci stranieri; stranieri residenti. Lo straniero residente “che apre le porte di una città dove non ha più senso il diritto d’asilo, dove viene meno la questione dell’ospitalità. Perché è una città dove non si risiede se non come stranieri. Questa è la condizione politico-esistenziale di ogni abitante che è allo stesso tempo straniero e residente”.
È forse solo un’idea, una utopia anarchica, ma è un’idea che ci spinge a fare a agire politicamente. A muoverci come se tutti fossimo e rivendicassimo di essere stranieri residenti.
Scrive ancora Di Cesare:
“L’irrompere dello straniero residente è una violazione del nomos della terra, un’effrazione nell’ordine statocentrico del mondo. Perché lo straniero residente richiama l’esilio immemoriale di ciascuno, ricorda a sé e agli altri che sulla terra, inappropriabile e inalienabile, tutti sono affittuari e ospiti temporanei. […]
Perché è importante politicamente questa assunzione, anche se pare utopia?
Perché “lo straniero è residente, ma risiede restando separato dalla terra. Questo rapporto non identitario con la terra dischiude, nell’assunzione dell’estraneità, un coabitare che non si dà nel solco del radicamento, bensì nell’apertura di una cittadinanza svincolata dal possesso del territorio e di un’ospitalità che prelude già a un modo di essere al mondo e a un altro ordine mondiale”.
In fondo, per molti partigiani quella lotta fu una lotta anche per un’utopia di giustizia.
(L’immagine è: Refugees di David Burliuk, wikiart.org)
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