Juan Gris, Ritratto di Pablo Picasso, 1912 (WikiArt, Public domain)

Manuel Vilas, “In tutto c’è stata bellezza”

Juan Gris, Ritratto di Pablo Picasso, 1912 (WikiArt, Public domain)
Juan Gris, Ritratto di Pablo Picasso, 1912 (WikiArt, Public domain)

Manuel Vilas, In tutto c’è stata bellezza (Guanda, 2019) è un libro forte che disturba il lettore. Ho continuato a leggerlo fino alla fine sia perché mi piaceva molto, sia perché in questi casi mi aiuto sempre pensando a Kafka che diceva – lo cito liberamente – che se i libri non ci disturbano sono inutili.

Vilas racconta vite che sono anche le nostre o che, meglio: potrebbero essere state anche nostre. Stessa generazione, stessi ceti sociali, difficoltà simili. Anche se – per mia fortuna – non mi riconosco nella sua solitudine attuale e non mi sfiora, almeno per ora, la sua ossessione per la morte.
Mi riconosco invece in quelle domande che si ripete continuamente, sui silenzi e le parole dette e non dette, sulle occasioni perse per parlare a fondo con i genitori e che poi ci perseguitano quando cominciamo a maturare e invecchiare. Sugli errori che non vorremmo che i nostri figli ripetessero con noi: l’errore del silenzio. Anche la forma spezzettata e frammentaria del libro – un memoir sui generis, più che un romanzo – offre il punto di equilibrio fra la lucidità dello scrittore è il rischio di dispersione dell’esistenza.
In tutto c’è stata bellezza, è un libro pieno di sofferenza e esperienze traumatiche – come l’abuso sessuale da parte di un sacerdote, subito a otto anni, o l’alcolismo o il divorzio – che chiama continuamente in causa indirettamente il lettore in una specie di dialogo e confronto a distanza sulle rispettive vite, in particolare nelle relazioni cruciali con la madre e il padre.
Però è un libro anche ossessivo, ripetitivo, reiterato, pieno di osservazioni minute sulle nostre vite, le classi sociali nella Spagna fra gli ultimi decenni del franchismo e gli anni Ottanta. È anche un mancato dialogo con i propri figli. È dolore e sofferenza e solitudine infilata in una prosa di grande vivacità precisione e bellezza.
Disturba perché Manuel Vilas scrive dei propri genitori con grande amore e dedizione e riconoscenza. Ma d’altra parte ne scrive in modo impietoso. Mi ha colpito molto, per esempio, la descrizione piena di amore, della madre come una “punk”, confusionaria, concentrata su poche, pochissime cose, disturbata dagli altri e dalle cose degli altri – gettava via ogni carta che trovava in casa, anche documenti importanti, per esempio – e che non sapeva davvero chi fosse Francisco Franco.

«Questo mi fa impazzire, questo fa sì che adori mia madre.
Non si può essere più punk.
A mia madre interessavano soltanto Julio Iglesias, le mogli e i figli e le figlie e il padre di Julio Iglesias, e le canzoni di Julio Iglesias. Quando sento la voce di Julio Iglesias penso a lei.» (Capitolo 139).

Sì, Vilas è anche melodrammatico. E analitico. Per esempio quando racconta del bagno della casa dei genitori. Un bagno orrendo, che non permetteva nemmeno di fare un vero bagno, e dove non venne mai installata una doccia funzionante. Non ci si poteva lavare. La madre però aveva deciso di rifare la casa per renderla adeguata al decoro previsto dallo status sociale ottenuto per qualche anno dal marito, grazie a un certo successo economico nel suo lavoro di commesso viaggiatore. Rifare la casa significava però, per la madre, avere un grande salotto da mostrare alle amiche in visita. Mentre il bagno continuava a essere scalcinato e inefficiente, come rimase fino alla fine. Poi, passata la sbronza del successo modesto, tornate le difficoltà economiche, le amiche “borghesi e agiate” abbandonarono la madre.

«Il patrimonio sociale di mia madre si disintegrò. Durante i pochi anni in cui a mio padre le cose andarono bene, mia madre riuscì a camuffarsi in una classe sociale che più tardi avrebbe finito per scacciarla dal suo seno. E il bagno non fu mai rinnovato. Mia madre inseguiva la considerazione sociale, che svanì, e io inseguo la considerazione letteraria, che sta anch’essa svanendo. Per questo, credo che non ci sia alcuna differenza fra le chimere di mia madre e le mie».

In tutto c’è stata bellezza merita tutta l’attenzione di chi si interroga sulla propria vita e vorrebbe dare forma a questa attenzione scrivendone, scrivendone anche a lungo. Ma mettete in conto un grande disagio. Anche se al fondo, Vilas ci mostra davvero quella “bellezza” che annuncia il titolo, e che ciascuno di noi cerca quando racconta e scrive la propria vita.
Manuel Vilas è nato nel 1962 a Barbastro in Aragona. Ha scritto raccolte di poesie e alcuni romanzi.

Intervista a Manuel Vilas (Avvenire)
Recensione del libro (El País)

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4 risposte a “Manuel Vilas, “In tutto c’è stata bellezza””

  1. Grazie, Luigi.
    Come sai questo è un libro che mi ha penetrato l’anima come un coltello affilato lasciandola quasi sconvolta. Un libro di follia e paranoia, ma anche di verità ultima e di lucidità fino all’osso. Una elegia in onore dei genitori, l’unico vero fondante della vita secondo Vilas, l’unica ragione di stare insieme e di non disintegrarsi ,l’unico vero amore e valore.
    Da dire che il titolo italiano poco c’entra col titolo spagnolo che è Ordesa – nome di una località di montagna dove Vilas andava da bambino con i suoi genitori. Anzi la frase ( che ricorre nel libro due o tre volte) secondo me è anche fuorviante.

    Questo libro è una summa della sua vita, anzi l’analisi del tessuto che la tiene insieme ( e che insieme la avvelena), in uno sforzo di sincerità tanto scottante quanto disturbante.
    Si è un libro che disturba, che inquieta, che destabilizza. E’ un libro estremo, senza filtri, senza perbenismi, senza apparenti censure ( mancano però dei personaggi della sua vita,quindi un filtro ci deve essere)
    E’ anche forse la prima volta che trovo un libro che renda l’adorazione totale di un bambino ( una bambina) verso i genitori in modo così moderno, comprensibile e irrazionalmente definitivo .

    Ma è vero che se questo è il tema centrale e fondamentale, intorno c’è un’epoca, una società, le ambizioni di un paese, le idee che circolavano, i vestiti, le abitudini, le vacanze, che richiamano tanto quelle dell’Italia degli anni 60 e in cui è così facile immedesimarsi per chi ha una certa età.
    E che Vilas è uno scrittore assolutamente straordinario e incisivo, da cui non si riesce a staccarsi, come per un incantamento morboso.
    L’ho già accostato – per questa sua ricerca disperata della sua verità personale e psichica – al lavoro di scavo di Annie Ernaux- da cui tutto lo divide, perchè lei è tanto freddamente scientifica e microchirurgica e intelligente da diventare universale, mentre Vilas svuota passioni e deliri come una lava bollente non decantata.
    Ma la tensione mi pare identica, uno spogliarsi restando nudo come un bimbetto con la propria enorme, temeraria e dolorosa fragilità, davanti agli occhi di chi legge.
    Questo è un libro che va riletto, cosa che mi accingo a fare.

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  2. @ Cristina ho letto con interesse le osservazioni di Luigi ( certo che Luigi e’ nei suoi scritti sempre coerente e risolto, con tutti i dolori e i dubbi e i ” momenti” , che tutti gli esseri umani vivono in maniera contraddittoria , ma senza confondere i piani.) Vilas e’ un sofferente cronico, trova. perfetti genitori volgari e e’ confuso costantemente. Se si vuole si trova bellezza anche dove ci sono solo buchi neri. L’ unica cosa che mi fa sobbalzare e’ l’ accostamento di questo uomo sofferente e tipico di una generazione di sconvolgimenti culturali, alla perfetta consapevolezza e alla straordinaria chiarezza di Annie Ernaux, unica nel suo genere e imparagonabile. Penso che sia Ernaux che Vilas ti abbiano colpita profondamente ma per. la loro forza non per la loro somiglianza.Ciaociao . così. penso ,può farsi che io mi sbagli. Cam

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  3. L’accostamento l’ho chiarito più volte, è il mettersi a nudo s enza pudori, tutto il resto li separa, Camilla, sono stata chiarissima.
    Anche Ernaux è soffferente a suo modo. Vilas è …barocco, a me non pare confuso se non nel senwso che il suo dolore lo travolge., Ernaux gode di una visione diciamo “illuministica”, sono due universi molto distanti. Ma il dolore pulsante, l’ossessione, arriva a fondo da tutt’e due le parti.

    E ti trovi un libro che ti fa palpitare e disturba eppure non riesci a lasciarlo, e questo va detto, questo osanna alla religione dell’infanzia, alla sua totalizzante e amorosa fede verso i genitori, al fondamento che i ricordi formano nell’intelaiatura dell’esistenza.

    Io ho sul mio comodino una foto in bianco/nero dei miei genitori giovani belli e sorridenti mentre brindano allegri seduti su una panca in qualche baita di montagna. Io non ci sono, dovevo avere sui 4-5 anni, probabilmente ero a nanna. La loro radiosa bellezza e allegria era il magnifico palcoscenico della mia infanzia, lo sfondo glorioso della mia esistenza, lo specchio di qualunque futuro. Per me poi tutto crollerà pochi anni dopo, ma quell’innamoramento lo ricordo bene e Vilas mi dice cose che so e ho provato, con la stessa intensità e assolutezza.

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  4. La differenza fondamentale fra Vilas e Ernaux è che lei – mentre li descrive -spiega e dispiega in modo micro-critico i s entimenti e le pulsioni della sua infanzia e adolescenza facendone un’operazione socio-psicologica di grandissima raffinatezza e immane coraggio.

    – Lui invece descrive acriticamente pulsioni e sentimenti totalizzanti e fatali della sua infanzia, li restituisce tali e quali senza spiegarli nè giustificarli ma facendoceli sentire e vivere.

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