Bernardo Bertolucci voleva fare un nuovo film, un film di gioia, in tre stanze, visto che non poteva muoversi bene in seguito al tumore al sistema linfatico che lo vessava da tempo. Ne aveva parlato al telefono all’amico e collega Paolo Taviani pochi mesi fa.

Il cinema, che lo ha reso uno dei più grandi cineasti del Novecento, sogno e conforto a cui voler tornare. La sceneggiatura di The Echo Chamber è l’ultima eredità del regista di Parma e del mondo: “Lavorare al film lo teneva in vita”, ha detto la moglie sceneggiatrice Clare Peploe.
In questi giorni, con la notizia della morte di Bernardo Bertolucci nelle vene (è mancato il 26 novembre a 77 anni), ho scartabellato YouTube alla ricerca di pezzi di lui.
È soprattutto un’intervista del 1970 ad avermi colpita. Bernardo aveva 29 anni, una barba incolta, l’Unità sotto braccio e quella sua inconfondibile “erre” intellettuale. Era ancora lontano dalle successive esplorazioni tra Hollywood e Cina (L’ultimo imperatore è del 1987, Il tè nel deserto del 1990, Piccolo Buddha del 1993), ma era alle porte il film dello scandalo Ultimo tango a Parigi (1972), con Marlon Brando bolso e prevaricatore.
Bertolucci aveva consegnato il suo primo capolavoro, Il conformista, tratto dal libro di Moravia, dove già c’era l’anima del suo cinema ostico e incisivo, congiunzione di impegno e liricità. Bertolucci aveva definito quel film una catarsi al contrario, nel bene anziché nel male. La quotidianità di una spia fascista, interpretata da Jean-Louis Trintignant.
Da figlio di poeta (Attilio), allora aveva ancora nei romanzi e nei racconti altrui il canovaccio a cui appoggiarsi (“Nei primi film avevo bisogno di appoggiarmi a un’opera letteraria, in qualche modo, anche senza rispettarla. Era come una garanzia, un appoggio vero”, aveva ammesso in un’intervista successiva).
Dopo Il conformista gli viene chiesto: “A cosa ti serve il cinema?”. Bertolucci risponde: “Il cinema mi serve forse prima di tutto per dare uno stile alla mia vita. Poi mi serve per non impazzire, forse. Mi serve per interpretare una realtà che mi sembra misteriosa, disordinata. Insomma mi serve per mettere in qualche modo un po’ di ordine a questa specie di caos che sento dentro di me e fuori di me”.
A cosa ti serve il cinema? Un interrogativo tanto ovvio quanto singolare, dalla risposta per nulla scontata. La stessa domanda ho fatto a una mia amica cinefila appassionata seppur non compilativa. Ha detto: “Il cinema mi serve a vivere altre vite, a seguire altre storie, a trovare la poesia nel bagliore dello schermo di una sala buia. A trovare la magia del vivere”.
A cosa mi serve il cinema? A cercare nella bellezza risposte, stimoli, riflessioni e il senso stesso della vita. Riscoprendo poi, negli altri, simili stimoli e riflessioni.
A un’altra intervista, sul set di Novecento (1976), Bernardo Bertolucci consegna invece la sua dichiarazione di poetica:
“La mia idea del cinema è sempre in evoluzione. Forse chi non ama i miei film dirà in involuzione. È quello che ha detto una volta Renoir: una grande macchina in cui tutto è prestabilito ma in cui improvvisamente la realtà entra attraverso una porta che tu hai lasciato aperta volontariamente a violentare quello che era stabilito, a sporcare quello che era stabilito, come il canto di queste comparse che sono andate a mangiare adesso e che arriva qui a folate ed è perfetto come se fosse aggiunto in mixage. Quindi l’improvvisazione e la casualità e la premeditazione totale fuse insieme. E poi le emozioni come diceva Samuel Fuller”.
Premeditazione, casualità, emozioni. La somma della vita, misteriosa e disordinata.
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