Il desiderio di condividere le letture è un bisogno profondo, “naturale”, suscitato dalla natura stessa del pensare. È un confronto consapevole con la solitudine, che ci prepara a comunicare con l’altro.

Quando abbiamo detto che il lettore ha quasi sempre un bisogno di parlare di quel che legge non mi riferivo ovviamente solo a un bisogno emotivo.
Mi sembra che i lettori siano convinti che questa spinta sia anche e soprattutto un bisogno intellettuale.
Nel senso più elementare: la lettura creativa e non passiva è pensiero e quando pensiamo usiamo il linguaggio, e il linguaggio, anche quando è usato solo “dentro noi stessi”, è già articolazione di un argomentare che si prepara a incontrare un altro, fuori di noi.
Leggiamo in solitudine, formiamo il pensiero e poi siamo pronti per comunicarlo. Per semplificare un po’: il pensiero è sempre pronto per essere condiviso con gli altri.
Certo non è un’idea molto originale; se ne parla da millenni, ma mi sembra necessario sottolinearla perché, parlando della volontà di comunicare attorno alle letture che facciamo, c’è a volte un uso forzato del concetto di solitudine: chi desidera condividere la lettura, si sostiene, lo farebbe perché desidera uscire dalla solitudine.
La solitudine, intesa come isolamento sociale, può certamente entrare fra i motivi che spingono qualcuno a partecipare ai gruppi di lettura.
Ma non è certo il motore del bisogno di condividere le letture, che è un bisogno più profondo, più “naturale” (un po’ azzardato, forse, ma è per intendersi), suscitato dalla natura stessa del pensare: anche quando il pensiero lo teniamo dentro, è sempre nella forma di un pensiero da esprimere a qualcuno oltre che a proposito di qualcosa.
In effetti passiamo una parte della nostra vita “soli con noi stessi”, a dialogare “dentro noi stessi”, con una specie di altro io che ciascuno di noi già da piccolo ha imparato a scovare in quella che un po’ genericamente chiamiamo coscienza; oppure, per usare un’altra metafora, a parlare – silenziosamente – con un secondo io che la coscienza inventa e usa come interlocutore, come oggetto di attenzione e intenzione, al quale si rivolge per ragionare, raccontare, considerare, rimuginare e brontolare, ricordare, interrogarsi. (Ne scrive a lungo e in modo ammirevole a proposito di come la vedeva Socrate, Hannah Arendt nel saggio “Alcune questioni di filosofia morale” in Responsabilità e giudizio, Einaudi, 2004)
Siamo tutti consapevoli della separatezza di ciascuno dal resto del mondo. Cerchiamo abitualmente di colmare questa separatezza avvicinandoci agli altri e parlando con loro, oppure usando la scrittura in qualche modo, per avvicinare, per ridurre le distanze.
Sempre sapendo che per la maggior parte del tempo siamo però in quel colloquio con noi stessi. Insomma, fra un incontro e l’altro, una dialogo e l’altro con esseri umani, continuiamo a usare il linguaggio per proseguire dentro di noi quello che ci distingue in quanto essere umani.
Siamo tutt’uno con l’articolazione dei nostri pensieri, che esistono solo sotto forma di linguaggio, che comunichiamo anche quando siamo soli con noi stessi; ma che esistono solo perché siamo naturalmente portati a farlo con in nostri simili.
Ogni giorno siamo alle prese con gli sforzi per riuscire a farlo con questi nostri simili. Essere compresi, comprendere loro, persino essere ascoltati, accordarsi sulle cose che vorremmo dire e sentire.
Il lettore, in tutto ciò, è soltanto un umano la cui esperienza è, più o meno fortemente, plasmata, formata, strutturata dalla lettura (oltre che dal resto delle esperienze).
Ma è proprio in questo scambio interiore, in questo lungo monologo che a volte si fa dialogo, in questo fluire della voce dell’io verso un ascoltatore interno, è qui che il lettore elabora la sua lettura, la macina, la mastica, la interpreta, la adatta, la fa, appunto, propria.
È una solitudine feconda, coltivata, ricercata, difesa, senza la quale la lettura non può generare pensieri, ragionamenti e emozioni. Dunque il lettore ricco di letture è solo un umano che nella propria solitudine ha più ricchezza da mettere nel dialogo con l’altro io che sta di fronte alla sua coscienza.
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