L’attacco gravissimo alla democrazia liberale portato dalla Lega e dal Movimento 5 Stelle si ferma difendendo, giorno dopo giorno, in tutti gli spazi pubblici e privati, i diritti umani universali, le istituzioni e la Costituzione. Ripartiamo dalla convinzione che diritti umani-civili e diritti sociali non possono essere separati, devono essere di tutti, non solo di una parte del “popolo”. Rimettiamoci in gioco, dal basso e “in basso”

Marco Revelli, in un articolo pubblicato sul “Manifesto” il 22 maggio, sottolinea con forza una caratteristica decisiva della condizione politica e sociale contemporanea, in Italia, ma non solo in Italia:
“Continuiamo a sognare la bella unità tra diritti sociali e diritti umani universali che il movimento operaio novecentesco aveva miracolosamente realizzato, e non ci accorgiamo che non sono più in ‘asse’. Che oggi i primi sono giocati contro i secondi, da questo stesso governo che a politiche feroci sul versante della sicurezza – alla negazione dei diritti umani – associa un’attenzione alle politiche sociali (per lo meno per quanto riguarda il loro riconoscimento nel programma) sconosciuta ai precedenti.”
“D’altra parte, – scrive più avanti – nemmeno il popolo è più quello di una volta: il popolo dei populismi classici, unità morale portatrice di virtù collettive, unito a coorte e pronto alla morte. È al contrario una disseminazione irrelata di individualità. L’ha mostrato perfettamente, ha aggiunto Revelli, la ricerca su “Chi è il popolo”, realizzata da un gruppo di giovani ricercatori nelle nostre periferie e presentata a Firenze: “il tratto comune a tutte le interviste era l’assenza di denominatori comuni. La perdita del senso della condivisione e dell’azione. La scomparsa dall’orizzonte esistenziale del conflitto collettivo, in un quadro in cui l’unica potenza sociale riconosciuta, l’unico titolare del comando, è il denaro, intangibile nella sua astrattezza e quindi incontestabile”.
Un nome che possiamo dargli è “moltitudine”, dice ancora Revelli. “In senso post-moderno e post-industriale: l’antica ‘classe’ senza più forma né coscienza. Decostruzione di tutte le aggregazioni precedenti. In qualche misura ‘gente'[… ] Cosicché anche i populismi che si aggirano, nuovi spettri, per il mondo sono populismi anomali: populismi senza popolo.”
E Revelli chiude l’articolo con un invito, un’esortazione:
“Per questo è bene rimetterci in gioco ‘in basso’. Nella materialità della vita comune. Corpi tra corpi. A imparare il nuovo linguaggio di un’esperienza postuma. Lasciando da parte, almeno per il momento, ogni velleità di rappresentanza che non riuscirebbe a essere neppure rappresentazione”.
È un invito che riprende quello che Revelli ha messo all’inizio dell’articolo:
“D’ora in poi dovremo metterci in gioco più direttamente, più di ‘persona’: imparare a fare le guide alpine al Monginevro, i passeur sui sentieri di Biamonti nell’entroterra di Ventimiglia, ad accogliere e rifocillare persone in fuga da paura e fame, a presidiare campi rom minacciati dalle ruspe. Perché saranno loro, soprattutto loro – non gli ultimi, quelli che stanno sotto gli ultimi – le prime vere vittime di questo governo.”
È dunque insieme un invito a “resistere” ma anche a resistere in forme differenti da quelle che ci sono sempre sembrate politiche. Ci manca la bussola per orientarci. Ci mancano le categorie adatte, sia politiche che sociali.
Il 4 marzo è avvenuta una “apocalisse culturale, politica e sociale”, è il punto dell’analisi di Revelli. Un “mondo è davvero finito. È andato in pezzi: il mondo nel quale si sono formate pressoché tutte le nostre categorie politiche, e si sono strutturate tutte le nostre pregresse identità, dalla destra alla sinistra, e si sono formalizzati i nostri linguaggi e concetti e progetti. Nessuna di quelle parole oggi acchiappa più il reale. Nessuno di quei modelli organizzativi riesce a condensare un qualche collettivo. Nessuna di quelle identità sopravvive alla prova della dissoluzione del ‘Noi’ che parte dal default del lavoro e arriva a quello della democrazia.
Resistere è dunque anche – io direi prima di tutto – difendere i diritti umani di coloro che saranno nel mirino delle azioni del governo, dei partiti che lo sostengono, del portato sociale che la loro propaganda genera. Sono, lo abbiamo detto, i più deboli, i meno protetti, i primi da difendere (la conferma tragica, una delle tante, nell’omicido di Sacko, un uomo che lottava per i diritti dei braccianti di San Ferdinando in Calabria).
In questo modo difenderemo i diritti universali: a nome di tutti e per tutti, senza distinzioni.
Dovremo farlo nelle aule dei tribunali, nei flash mob e nelle manifestazioni, nelle petizioni, nei presidi davanti ai Comuni, alle Prefetture, al Parlamento. Farlo tassandoci per pagare gli avvocati, e farlo sdraiandoci davanti ai campi dove arriveranno “le ruspe”.
Dovremo farlo con la contro-informazione. Capendo e argomentando che diritti umani-civili e diritti sociali non possono essere separati, non possono essere solo degli italiani. Perché se sarà così, allora finirà la democrazia liberale.
Le democrazie liberali non muoiono solo con i colpi di stato, muoiono a colpi di maggioranza, che si sentono onnipotenti e autorizzate a tutto.
Sappiamo che il modello della Lega è l’Ungheria di Orbán, dove la trasformazione di una democrazia liberale in una “democrazia” autoritaria illiberale si sta compendo.
Lo ha spiegato, fra gli altri, anche Emma Bonino in un’intervista a “la Repubblica” del 5 giugno 2018:
“Abbiamo vissuto in questi giorni, e ho paura che non sia finito, il più grave attacco nella storia della nostra Repubblica alla democrazia rappresentativa, alla Costituzione, all’ordinamento liberale”.
Ecco troviamo le forze per resistere e reagire. La nostra trincea sono i diritti umani, di tutti.
Intanto, per chiarirsi le idee sulla deriva populista, si può anche leggere, di Marco Revelli, Populismo 2.0, Einaudi.
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