Sabato accennavo alla forza e necessità dei memoir. La scrittura “personale”, e la disponibilità dei lettori a leggere le vite degli altri è un misterioso incontro fra identificazione, autoanalisi, bisogno di vedere vite esemplari.
Ma la lettura del memoir funziona anche da chiave per accedere direttamente alle nostre vite, che teniamo ben chiuse in noi stessi. Intendo: ciascuno entra nella propria vita.

Qui è però fondamentale il valore estetico della scrittura. Non basta leggere una memoria sincera. Non basta leggere una vita altrui. La bellezza del racconto, dell’analisi, dell’introspezione diventano – attraverso l’arte – una forma allo stesso tempo unica e universale (e peraltro parziale, come dirò più avanti) della condizione delle donne e degli uomini. Senza qualità estetica la scrittura di memoria non funziona. O al massimo funziona, e male, solo per chi ne è parte.
La qualità estetica, invece la fa “funzionare” per tutti, in due modi: da un lato apre al lettore un mondo intimo nel quale, in un modo o nell’altro, finisce per identificarsi.
Ma d’altro lato, stimola a scavare dentro di sé. A esercitare lo stesso scavo nella propria vita. Fino a spingere molti a scriverne. Magari poi resta nel cassetto, o lo legge una persona amica, soltanto. Ma la sua natura si trasforma, diventa una storia, una riflessione accurata su di sé. In questo è anche terapeutica.
Il che non significa che si debba leggere necessariamente qualcosa di vicino alla propria esperienza.
È uno stimolo quel che cerchiamo, uno slancio, un modo di pensare, un’urgenza.
Ho letto per esempio alcune settimane fa il “romanzo semi-autobiografico”, come qualcuno lo definisce, “Il nipote di Wittgenstein. Un’amicizia” di Thomas Bernhard (Adelphi). Un’opera tarda dello scrittore austriaco dedicata a quello che in realtà fu un nipote di un cugino del filosofo Ludwig, da non confondere con il fratello del filosofo, Paul, famoso pianista con un solo braccio.
In questo libro molto bello, in molte sue pagine, verso la fine soprattutto, si manifesta in tutta la sua acida ironia, l’insofferenza, forse anche il rancore, di Bernhard nei confronti dell’Austria, di parte della cultura, dei medici, degli psichiatri, delle istituzioni. A volte è quasi irritante, come molti lettori dicono spesso di Bernhard.
Eppure, “Il nipote di Wittgenstein” è soprattutto un libro su come raccontare l’amicizia; un ritratto commovente di un amico, Paul Wittgenstein, appunto, esponente alla deriva psichiatrica di una tradizionale famiglia austriaca, ricca ma meschina, ci sembra di capire. Famiglia incapace di apprezzare e proteggere quello che dice Bernhard, e lascia intuire in molte pagine, era un genio paragonabile a quello dello zio Ludwig.
Quando si dice “come raccontare l’amicizia” riferendosi a Bernhard, ovviamente non pensiamo a nulla di zuccheroso, facilmente commovente, retorico, facile da ricordare o da copiare o da citare parlando di una faccenda così complessa come l’amicizia.
Fra le varie cose che Bernhard indirettamente ci suggerisce c’è anche lo scetticismo nel leggere: attenzione, il lettore avvertito capisce che il narratore di un memoir, come quello di un romanzo, può essere inaffidabile, esagerato, parzialissimo, rabbioso; credibile e allo stesso tempo da relativizzare. Amche questo è il libro di Bernhard, la sua versione di Paul, il suo amico, è commovente e indimenticabile, ma lascia al lettore l’idea che esistano altre versioni di Paul. Ci lascia la sensazione che vorremmo leggere una memoria scritta dallo stesso Paul e magari qualcuna scritta da altri suoi amici.
“Il nipote di Wittgenstein” è un libro che non finisce mai. Appunto.
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