Eccoci al secondo libro del Gruppo di lettura, “Leggere il XXI secolo“:
Adriana Zarri, Un eremo non è un guscio di lumaca. Erba della mia erba e altri resoconti di vita, Einaudi, 2011.
La riunione sarà giovedì 4 11 dicembre 2014, ore 21, Biblioteca di Cologno Monzese.
Il libro raccoglie gli scritti di Adriana Zarri (1919-2010), teologa cattolica, scrittrice, “monaca laica”, a proposito della sua scelta di essere eremita, e soprattutto la descrizione di questa vita e del suo senso.

Il volume propone prima di tutto quanto era stato pubblicato in Erba della mia erba (Cittadella editrice) nel 1981, scritto al Molinasso (una cascina nella campagna piemontese). Poi altri scritti sparsi recuperati dall’autrice fra le proprie carte e risalenti più o meno a quel lontano periodo. Infine ci sono testi inediti scritti nel 2010 nel secondo luogo del suo eremitaggio Cà Sàssino.
Ho letto la prima parte del libro quindi mi limito ad alcune prime osservazioni che cercherò di completare nei prossimi giorni, a lettura terminata.
Il libro ha una struttura fatta di piccoli capitoli dovuta in parte alla natura di questi scritti: articoli per la rivista Rocca che uscivano ogni quindici giorni; e in parte alla natura di frammenti e appunti che Zarri prendeva osservando la propria vita nei suoi eremi.
Al Molinasso
Adriana Zarri arrivò al Molinasso nel 1975 – dove rimase sei anni – dopo altri cinque anni di vita monastica vissuta in un eremo meno solitario e silenzioso.
Quindi una scelta forte, religiosa e di solitudine. Vissuta sul crinale di un’opposizione a una parte delle gerarchie ecclesiastiche, non pregiudiziale ma fatta di scelte politiche e sociali radicali, per esempio schierandosi a favore delle leggi che hanno legalizzato aborto e divorzio, una speciale militanza documentata anche dai suoi scritti per il Manifesto nel corso degli anni ’80, e riflessa anche nelle belle parole di Rossana Rossanda che introducono questo volume.
Una scelta che si è scontrata anche con molti dubbi e che fa i conti – in molte pagine di questo libro – con l’obiezione che questa solitudine fosse un’autoesclusione dalla società.
Solitudine, non isolamento
Un eremo non è un guscio di lumaca”, scrive Zarri, “e io non mi ci sono rinchiusa; ho solo scelto di vivere la fraternità in solitudine. E lo preciso puntigliosamente per rispondere all’obiezione che concepisce questa solitudine come un tagliarsi fuori dal contesto comunitario e che – come confonde la comunione con la comunità – confonde la solitudine con l’isolamento, la misantropia, la chiusura egocentrica. E invece no. L’isolamento è un tagliarsi fuori ma la solitudine è un vivere dentro. L’isolamento è una solitudine vuota. La mia situazione, invece, è una solitudine piena, cordiale, calda, percorsa da voci e animata da presenze. La solitudine non è una fuga: è un incontro, così come il silenzio è un continuo, ininterrotto dialogo. Non si sceglie la solitudine per la solitudine ma per la comunione, non per stare soli ma per incontrarsi, in un modo diverso, con Dio e con gli uomini. Si potrebbe forse dire che la solitudine è la forma eremitica dell’incontro. (pag. 28)
Anche se buona parte dei primi capitoli del libro sono dedicati ad articolare, con molte sfumature, circostanze ed esempi, questo concetto fondante la scelta di Zarri, mi affascinano più le parti descrittive di questa vita: la cascina da arrangiare per accogliere una persona, i lavori quotidiani per rimediare alla mancanza di elettricità e di riscaldamenti; il freddo e il buio dell’inverno; i doni dei contadini, il lavoro per ottenere dalla terra i beni necessari. Il rapporto con gli animali. Molto belli per esempio i capitoli “Le nebbie” sull’arrivo dell’inverno e “La vita vive sulla morte”, dedicato alla complessa relazione fra l’amore per gli animali, la “necessità” di cibarsi di essi e la moralità dell’atto dell’ucciderli.
E tutto – senza indulgenze nemmeno lontane a forme di panteismo – in un costante rapporto con Dio, attraverso la preghiera, il pensiero e il lavoro quotidiano, che è al tempo stesso uno stimolo affascinante e una sfida costante per chi non è credente.
La solitudine si svuota
Zarri per esempio non nasconde i momenti difficili, quando la solitudine si “svuota” e diventa un “buco nero”. Perché la solitudine non è più un modo per incontrare gli altri più profondamente perché l’uomo non viene “recuperato”. E questa solitudine non può essere colmata nemmeno da Dio “perché il mancato recupero dell’uomo è un indice di un incompleto incontro col Signore. Niente allora gli sembra più desiderabile di un volto e di una voce umana; ma, in quel momento, sarebbe un surrogato” (pag. 74).
Ci tornerò a lettura terminata.
Rispondi