“A volte è inutile parlare dei libri letti: sarebbe un monologo. Se gli interlocutori non conoscono l’autore, o quell’opera, finisci col tacere”

Alcune settimane fa mi sono fatto prendere la mano da una sorprendente necessità di definizione: volevo chiarire quando pensavo fosse il caso di parlare di un libro letto e quando, invece, fosse il caso di lasciare perdere.
Credo si trattasse, almeno in parte, di giustificare i miei frequenti, troppo frequenti, silenzi e di rivendicare un diritto ad avere anche una lettura solo per se stessi, oltre che una lettura che serve soprattutto per preparare altre letture o per colmare lacune.
Ieri però, rileggendo quelle parole, mi sono trovato a pensare che forse avevo dimenticato un fatto fondamentale e semplice che spesso rende il resto del ragionamento superfluo: il più delle volte è inutile parlare dei libri letti perché rischiamo di esprimerci in un monologo.
Lo stesso libro
Il che implica che partiamo dall’assunto che conversare di libri è soprattutto parlare, almeno in due, dello stesso libro. (Lasciamo qui in ombra, invece, il discorso sui libri tipico di chi consiglia libri ad altri, discorso in effetti piuttosto importante e che comporta questioni e rischi differenti).
Perché, a meno che non si aspiri a ipnotizzare il nostro interlocutore, o che alcuni di noi si sentano straordinari narratori (il che è possibile, in effetti), è arduo credere di poter interessare qualcuno che non ha mai letto l’autore e il libro del quale vorremmo dire i nostri pensieri.
E, non so se siete d’accordo, è ormai statisticamente difficile incrociare persone che abbiano letto lo stesso libro. (Variante: che abbiano letto lo stesso libro e che questo libro si presti alla conversazione).
Non certo perché le letture che si scelgono siano elitarie, piuttosto perché le nostre letture sono così varie e la disponibilità di autori e titoli di libri – ma anche di articoli di riviste letterarie, di storia, di filosofia, di qualsiasi argomento ci interessi, soprattutto sul web – è tale che se non ci si mette d’accordo prima (per esempio dentro un Gruppo di lettura) il caso deve esserci davvero amico per farci incrociare qualcuno che ha letto il nostro stesso libro.
Un cenno di assenso
Certo, diciamo che se si tratta di un Pirandello, di un Tolstoj o di un Philip Roth le possibilità aumentano notevolmente. E questa possibilità di conversazione forse contribuisce a spiegare perché i “classici” – qualsiasi sia la definizione di classici – continuano a essere letti così tanto. Ma per il resto, per la letteratura contemporanea e ancor di più la saggistica, siamo davvero nelle condizioni di lettori che parlano a vuoto, al massimo parlano a interlocutori educati che qualche fanno qualche domanda, oltre al monosillabo di assenso.
La Storia, Le Correzioni
Per la verità, a far emergere questo pensiero ha contribuito lo scrittore inglese Tim Parks che in un articolo sul blog della NewYork Review of Books di qualche giorno fa si è occupato proprio di questa faccenda: il numero sempre più piccolo (la quasi scomparsa, diciamo) di titoli di cui tutti parlano, conversano. Quello che nella seconda metà Settecento inglese fu a lungo Tristram Shandy, nell’Ottocento fu Tess dei d’Ubervilles. Oppure qualche anno fa fu Le Correzioni di Jonathan Franzen. E aggiungo io, in Italia fu ancora negli anni Settanta, La Storia di Elsa Morante, uno fra i tanti.
Forse questo ruolo oggi passato alle serie tv. E chiunque frequenti luoghi dove ci siano varie classi di età potrà notare come solo House of cards o The walking dead abbiano ancora questa forza (osservazione che non implica nessun giudizio di valore, in un senso o nell’altro).
Murakami
Anche per questo, forse, stanno diventando così comuni i gruppi di lettura. D’altra parte anche questo blog può essere considerato a suo modo, una piccola eccezione.
Come nota Parks, forse lo scrittore contemporaneo che ancora riesce a far parlare di sè generando una vera conversazione è Murakami Haruki.
Ho letto solo due libri di Murakami e per ora non ne sento la mancanza. Parks però ci offre una risposta abbastanza convincente sul perché la sua scrittura sappia far parlare le persone: perché invariabilmente tiene al suo centro il dilemma e la fatica contemporanea di trovare un equilibrio fra le relazioni affettive che rendono la vita intensa e la propria indipendenza e identità; tra il timore di essere sopraffatti dagli altri e la paura di restare soli.
Ma davvero si parlava di Siddharta?
Un punto di vista che mi pare interessante e che aiuta a spiegare perché sia tanto apprezzato, specialmente fra i giovani.
Mi ricordo che negli anni settanta si pensava che Hesse avesse questa capacità di farci conversare. Non so però se ci riuscisse veramente. Ho ricordi che transitano dalla convinzione che si parlasse veramente di Siddharta o di Narciso e Boccadoro ad altri che mi fanno pensare che invece ci limitassimo a domande generali su chi avesse o meno letto lo scrittore tedesco.
Un abbraccio a tutti
PS Invito a votare per contribuire alla scelta dei primi quattro libri del Gruppo di lettura di Cologno Monzese dedicato a “Leggere il XXI secolo”. Invito che vale anche per chi non leggerà mai quei libri né tanto meno interagirà mai con il Gruppo, nemmeno a distanza. Se invece oltre a votare vi interessa partecipare in una qualche forma, avrete presto notizie sulle date e i libri.
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