Leggere un libro e ritrovarsi, in più di un’occasione, ad avere gli occhi lucidi, bagnati dalle lacrime. In modo del tutto inaspettato. A me è accaduto l’ultima volta con Niente di nuovo sul fronte occidentale di Erich Maria Remarque. Il fatto mi è servito più che altro a pensare all’eccezionalità della cosa (per me). Poche altre volte mi era capitato di versare lacrime per un libro: dunque ero stata “insensibile” fino a quel momento o al contrario ho sempre mostrato un alto livello di “adultitudine”?
Ci ho pensato un po’ prima di scrivere questo post sul Gdl, quando però ho visto che anche sul New Yorker si facevano la stessa domanda (con un vero e proprio viaggio attraverso i secoli sul legame tra letteratura e lacrime), ho pensato non fosse poi così banale. Sul sito del prestigioso settimanale americano prendono spunto da un libro di John Green su cui Ruth Graham di Slate ha dichiarato di non aver versato neanche una lacrima: “dunque sono senza cuore o piuttosto più adulto degli altri?” si domanda. Al contrario Lorin Stein, il direttore di The Paris Review, confessa di aver letto il libro sdraiato “per ovviare alla necessità di un fazzoletto”.
L’articolo del New Yorker: Crying while reading through the centuries
Ho fatto dunque un excursus mentale negli anni su altri titoli che avessero suscitato reazioni analoghe in me e in realtà me ne sono venuti in mente solo tre molto diversi tra loro: Comandante ad Auschwitz di Rudolph Höss, Espiazione di Ian McEwan e Paula di Isabel Allende.
Il primo, autobiografia scritta da colui che fu comandante nazista a Auschwitz per due anni, per le atrocità raccontate nei minimi dettagli con lucidità e razionalità. Troppo per me da sopportare.
Il secondo (ne avevo parlato anche qui) per il dolore che negli altri creava l’egoismo della protagonista, la piccola Briony, che con la menzogna rovina la vita di due amanti senza colpe.
Leggi anche: Espiazione, un bel romanzo e un discorso sulla scrittura
Il terzo, per il tentativo di una madre (Isabel Allende) di “distrarre la morte” mentre assiste la figlia Paula durante il suo anno di coma che la porterà a morire all’età di 28 anni per una malattia rara del sangue.
Di sicuro in tutti i casi non avevo idea di cosa avrei provato e di cosa la lettura avrebbe suscitato in me. Dunque, dopo aver letto il New Yorker, ho riflettuto sul fatto di far parte di quel gruppo di lettori che non si è aggrappato al genere “sentimentale” per forza, creato da un certo numero di scrittori con la volontà di generare lacrime, ma all’altro gruppo di lettori stimolato da scrittori con l’ambizione di spostare l’attenzione e le emozioni su sentimenti “elevati” tali da far riflettere sui grandi temi sociali, umani, collettivi.
Una riflessione che potremmo spingere anche oltre fino ad arrivare al fatto che quello che leggiamo e il modo in cui lo facciamo molto ci dicono di “che persone siamo”. Tema del resto molto caro ai lettori di questo blog.
Si dovrebbe tendere, penso, a un equilibrio armonico tra la mente del lettore e quella dell’autore. Dovremmo rimanere un po’ distaccati e trarre piacere da questo distacco, e contemporaneamente godere a fondo – godere appassionatamente, godere con lacrime e brividi – il tessuto interiore di un determinato capolavoro
diceva Vladimir Dmitrievič Nabokov nelle sue Lezioni di letteratura. Lavoro non facile, certo. Un perfetto equilibrio. Preferisco tuttavia anche pensare alla libertà a volte di snaturarlo e di romperlo. E, perché no, a un certo punto di perdere anche un po’ il “distacco” e mettersi sdraiati senza pensarci troppo per “ovviare alla necessità di un fazzoletto”.
Rispondi