Il disagio del lettore davanti a una storia come quella dell’assassino della Sandy Hook Elementary School: la scrittura deliberatamente rifiuta le tecniche “narrative” perché non vuole attribuire un senso. Perché il senso narrativo forza verso una conclusione che sembra inevitabile. E invece la maggior parte delle storie come quella di Adam Lanza, ovviamente, finisce in altro modo.
I due giorni buoni per incontrare l’uomo che ormai è diventato quasi la coscienza critica del lettore che sta dentro di me sono passati senza che si sia mostrato.
Quindi questa settimana devo fare da solo.
Senza coscienza critica lascio in pace Proust.
Una delle letture di questi giorno della quale volevo parlare non è in un libro ma su una rivista, il NewYorker. Qualche numero fa ha pubblicato un lungo articolo di Andrew Solomon, uno psichiatra, che ha ricostruito la condizione psicologica di Adam Lanza, il ragazzo di 20 anni che il 14 dicembre del 2012 ha ucciso 20 bambini e sei adulti in una scuola del Connecticut, la Sandy Hook Elementary School; ha ucciso sua madre e si è tolta la vita.
Solomon l’ha ricostruita, soprattutto parlando con il padre di Adam, Peter Lanza oltre che consultando colleghi che nel corso della vita hanno visitato Adam, che da anni mostrava disturbi psichici.
Peter Lanza e l’autore dell’articolo si sono incontrati sei volte, in interviste molto lunghe, anche sei sette ore alla volta. Shelley, la donna che attualmente vive con Peter, una bibliotecaria che lavora all’Università del Connecticut, era presente a questi incontri, per aiutare Peter, “per natura non portato ad esaminare se stesso, e spesso era Shelley che sottolineava le ramificazioni emozionali di quel che diceva Peter”.
Peter viveva separato dal figlio, da quando il legame con Nancy, la madre di Adam e dell’altro figlio, più grande, Ryan, era consensualmente finito. Peter è rimasto in contatto con Adam anche se la madre Nancy che viveva in casa con lui aveva assunto la guida dell’educazione e delle relazioni affettive con il ragazzo.
Il racconto di questa relazione di Peter con il figlio – racconto fatto alla luce dell’epilogo terribile – è il racconto di una lunga incomprensione della mente di questo ragazzo e dei segnali inviati, dei dubbi sul proprio ruolo di padre in una condizione, assai comune, di separazione fra i genitori, della consapevolezza del peso insostenibile che gravava sulla madre e della contemporanea incapacità-impossibilità di entrare in quella relazione che si era stabilita fra madre e figlio, sulla quale Peter aveva molti dubbi – per Nancy la vita era diventata così difficile che il modo migliore di renderla sopportabile era diventato compiacere e celare, e forse negare a se stessa, i comportamenti inspiegabili e la sofferenza del figlio.

La condotta della madre di Adam non viene mai criticata esplicitamente dall’ex marito.
Nancy tra l’altro teneva armi in casa, accompagnava ogni tanto il figlio al poligono, perché, diceva, sembrava rilassarsi sparando. Adam aveva anche sviluppato un interesse quasi ossessivo per le vicende di omicidi di massa (come quello che poi avrebbe compiuto lui) e aveva anche editato alcune voci di Wikipedia dedicate a queste persone.
Questo, nel complesso, è forse anche il racconto del fallimento di una comunità nel comprendere e far proprio il dolore e il disagio. Ovviamente niente di tutto ciò serve a spiegare, a dare senso, a cercare il perché un ragazzo di 20 anni, il cui contatto con la psichiatria aveva prodotto una serie di diagnosi “semplicemente ” ascritte a forme di autismo, abbia concluso la sua vita sparando e uccidendo nella scuola elementare che aveva frequentato.
La lettura di una “storia” come questa è per molti versi deludente per il lettore che cerchi risposte: non perché lo scritto non sia di qualità ma perché Solomon non usa quasi nessuno degli artifici narrativi che spesso anche il giornalismo o la saggistica usano per attirare il lettore dentro una serie di fatti ai quali attribuire senso. Qui invece, nulla.
Rispondi