Questa mattina l’uomo che la volta scorsa ho frettolosamente definito “amico” mi aspettava dentro il bar.

È piuttosto alto, ha la barba curata, sarà sui sessantacinque, con una voce stridula e incostante, guarda quasi sempre lontano, quasi mai negli occhi. La discussione della volta scorsa sui lettori deve averlo stimolato perché questa mattina ci ha riprovato.
Si ricordava dei gruppi di lettura. Gliene avevo parlato, soprattutto per ricordargli che i lettori non sono tutti uguali. Insomma, mi ha chiesto alcune cose. E quando gli ho detto che fra poco in Biblioteca ci sarà un gruppo di lettura dedicato a Proust, dopo qualche battuta sulla quantità di tempo che ci porterà via l’intera recherche, “tutta una vita ci vorrà”, si è fermato a pensarci.
Già, il tempo, la vita.
Si è fatto serio e ha aggiunto che per quanto ne sapeva, per quel poco che ne ha letto e per come se lo ricordava, Proust gli faceva pensare a un buon modo per avvicinare l’argomento delle cosiddette “scelte sulla fine della vita”. Quello che il presidente Napolitano ieri – rispondendo a Carlo Troilo, consigliere dell’associazione Luca Coscioni, ha invitato il Parlamento ad affrontare. E ha concluso:
Perché, in fondo, Proust cosa può essere ormai se non uno che ti aiuta a guardare la vita, estremamente da vicino? In modo ossessivo, esasperante quasi fino allo sfinimento. Ma lì ti inchioda. Solo questo, non vi illudete.
Voleva dire, se gli fosse venuto il cliché, che Proust esprime meglio di chiunque, la condizione umana.
A me questo collegamento di Proust con “le scelte sulla fine della vita” mi ha lasciato un segno profondo. Mi genera anche qualche vertigine. Però temo ci azzecchi. Ci devo ritornare.
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