Aprire Austerlitz è come immergersi in una ricerca del tempo, del passato. Sarà un caso, ma il luogo in cui il narratore incontra per la prima volta il protagonista del romanzo, che scopriremo poi chiamarsi Jacques Austerlitz, è la Salle des pas perdus, la Sala dei passi perduti, nella stazione di Anversa nel 1967.
Ho pensato subito a Proust, ai meccanismi con cui funziona la memoria intesa come strumento di ricerca che a volte (ma solo a volte) ci aiuta, spesso involontariamente, a scoprire l’identità e a riappropiarci della realtà e del tempo.
Non so se Sebald abbia mai pensato a Proust, certo è che la storia di Austerlitz (uomo che solo a 50 anni ricorda della sua infanzia a Praga, del fatto di essere ebreo, di chi fossero i suoi veri genitori, della sua lingua madre, il ceco) è un viaggio nel tempo e nella memoria. Un viaggio disperato, difficile, tormentato. Un viaggio che diventa esso stesso il significato della vita di Austerlitz alle prese con quella memoria involontaria che in un attimo riporta a galla momenti, volti, profumi, istanti della vita finiti chissà dove per chissà quanto tempo.
E riporta il passato nel presente, violentemente e senza chiedere permesso. Anzi il passato diventa presente nel momento in cui la sua conoscenza ci rende un’entità nuova. E si proietta nel futuro, laddove le scelte di vita saranno ad esso condizionate.
Nessuno può spiegare esattamente che cosa succede in noi quando si spalanca la porta dietro cui si sono celati i terrori dell’infanzia.
dice Austerlitz che, mentre viene abbagliato da lampi di memoria, pensa di
non essere stato mai veramente in vita o di essere venuto al mondo solo allora, per così dire alla vigilia della morte
Terribile la soglia della disperazione a cui questo risveglio della memoria può portare (pag. 135-137 in cui tutto diventa debolezza, rifiuto, disperazione fino al pensiero del suicidio).
Durante il percorso di ricostruzione della sua vita, tuttavia, le immagini assumono un ruolo centrale. Del resto Sebald le usa anche a corredo delle parole; ogni tanto ci propone qua e là foto di oggetti, luoghi, persone che descrive.
si agiti qualcosa, ci sembra di udire lievi sospiri di disperazione, quasi le immagini avessero anche loro una memoria e si ricordassero di come allora eravamo noi, i sopravvissuti, e di come erano quegli altri che adesso ci hanno lasciato.

E allora il tempo diventa un’illusione. L’abisso del tempo è per Austerlitz la più artificiosa delle invenzioni. Ce lo ricorda spesso, quando dice di non aver mai avuto un orologio o quando si domanda:
Se Newton davvero riteneva che il tempo fosse un fiume come il Tamigi, dov’è allora la sorgente del tempo e in quale mare esso sfocia alla fine?
I morti sono fuori dal tempo, al pari dei morenti e di tutti i malati costretti a letto in casa o negli ospedali, e non soltanto loro, basta già un certo grado di infelicità personale per tagliarci fuori da qualsiasi passato e da qualsiasi futuro….
E dice:
Tutti i momenti della nostra vita mi sembrano allora raccolti in un solo spazio proprio come se ciò che accadrà in futuro esistesse già e aspettasse soltanto il nostro arrivo, così come noi, a seguito di un invito accettato in precedenza, arriviamo in una certa casa a una certa ora… E non potremmo immaginare di avere appuntamenti anche nel passato, in ciò che è già avvenuto e in gran parte è scomparso e di dover cercare proprio nel passato luoghi e persone che, quasi al di là del tempo, hanno con noi un rapporto?
Il tempo come un’unica entità senza né inizio né fine, senza né prima né dopo.
Austerlitz non si dà una risposta. E Sebald mi ha lasciato ancora, curiosamente sgomenta, con il suo bagaglio di incertezze.
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