Nei saggi dedicati alla letteratura Milan Kundera affronta più volte e da più aspetti la questione della memoria, del dimenticare, intrecciate alla lettura e alla scrittura.

Ne I testamenti traditi (1993) lo fa, in modo assai radicale, quasi antropologico: siamo condannati al passato, dice, non sappiamo cogliere la concretezza del tempo presente.
Anche se ricordiamo, quello che ricordiamo non si avvicina neppure all’«attimo presente» che abbiamo vissuto.
Del resto questo avviene anche – e forse soprattutto – con l’ossessione contemporanea per la “diretta”: diretta tv, dirette delle vite che vengono twittate o postate su Facebook, foto scattate e immediatamente condivise su Instagram, video girati e subito messi su Youtube: ma non si scappa, tutto diventa subito condannato al passato. perde concretezza, diventa cronaca piccina, riassunto, impressione.
Prima di citare Kundera aggiungo che questa condanna al passato, se ci si pensa con attenzione, la viviamo anche da lettori di un romanzo (o di un film): la meraviglia del momento, con i dettagli dei dialoghi, i luoghi, le sensazioni generate dalla vicenda narrata; la consapevolezza dell’unicità del momento che svanisce. Un vero incanto, che appena chiudiamo il libro si trasforma in (pallida?) memoria. Però se c’è una salvezza da questa condanna è proprio nel romanzo, come vedremo anche nel prossimo post, sempre dedicato al pensiero di Kundera in proposito.
I testamenti traditi (Adelphi):
Provate a ricostruire un dialogo della vostra vita, il dialogo di una lite o un dialogo d’amore. Le situazioni più care, le più importanti, sono perdute per sempre. Ne rimane soltanto il senso astratto (io ho sostenuto il tal punto di vista, lui il tal altro, io sono stato aggressivo, lui sulla difensiva) accompagnato magari da uno o due particolari, ma la concretezza acustico-visiva della situazione nella sua continuità è andata persa.
Non solo è andata persa ma tale perdita non ci meraviglia nemmeno. Siamo rassegnati a perdere la concretezza del tempo presente. L’attimo presente viene immediatamente trasformato nella sua astrazione.
[…]
La nostra conoscenza della realtà è sempre al passato. Non è mai al presente, al momento in cui accade, in cui è. Ma l’attimo presente non assomiglia al suo ricordo. Il ricordo non è la negazione dell’oblio. Il ricordo è una forma dell’oblio. […]
Non basta tenere un diario: quando lo leggeremo faticheremo a evocare immagini concrete; e l’immaginazione non ci soccorrerà
Per noi il presente, la concretezza del presente, in quanto fenomeno da esaminare, in quanto struttura, è infatti un pianeta inesplorato; perciò siamo incapaci sia di fissarlo nella memoria sia di ricostruirlo con l’immaginazione. Tutti muoiono senza sapere di aver vissuto.
Il romanzo per contro, secondo Kundera, da un certo punto della sua evoluzione avverte proprio l’esigenza di “opporsi alla fuggevole realtà del presente”.
È con l’avvento della “scena” che il romanzo ambisce a “cogliere la concretezza del presente”. Quindi a inizio Ottocento, con Scott, Balzac, Dostoevskij, che strutturano i loro romanzi come un susseguirsi di scene. Con la scena come elemento fondamentale del romanzo, “viene virtualmente posto il problema della realtà quale essa appare nell’attimo presente.” Poi arrivò Flaubert ad affrancare il romanzo dalla teatralità nella quale quel tipo di struttura a scena l’aveva infilato.
Con Flaubert la scena diventa “la scoperta della struttura del’attimo presente; la scoperta di quella perpetua coesistenza di banale e di drammatico che è alla base delle nostre vite.”
Sarà Ulisse di Joyce a celebrare il trionfo della concretezza del presente. In Joyce “un attimo del presente diventa un piccolo infinito”,
Milan Kundera, I testamenti traditi, (Adelphi), Parte quinta: Alla ricerca del presente perduto.
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