
Il ponte invisibile di Julie Orringer, edito da Einaudi, è un bel librone di oltre 750 pagine, ma non si sentono. Le pagine scorrono veloci, e non vorresti mai essere arrivato alla fine.
Il libro inizia presentandoci i fratelli András e Tibor Lévi, poco più che ventenni, ebrei ungheresi. András ha vinto una borsa di studio, grazie a dei disegni pubblicati su un giornale, e andrà a studiare architettura a Parigi, alla Ecole Spéciale d’Architecture; Tibor, il fratello maggiore, rimarrà a Budapest: nonostante il suo sogno di studiare medicina in Italia, non è ancora riuscito a ottenere i permessi. E così, passano un’ultima serata insieme a teatro, ignari di quello che riserverà loro il futuro.
Più avanti le avrebbe detto che la loro storia era cominciata al Teatro nazionale dell’Opera ungherese, la sera prima che lui partisse per Parigi sul treno espresso per l’Europa occidentale. L’anno era il 1937, il mese settembre, l’aria insolitamente fredda per la stagione. Suo fratello aveva insistito per portarlo all’opera come regalo d’addio. Davano la Tosca e i loro posti erano in piccionaia.
E così András parte per Parigi, dove è ambientata tutta la prima parte del libro, in cui impariamo a conoscere la nuova vita del ragazzo, conosciamo i suoi nuovi amici, ebrei come lui, stiamo svegli insieme ad András di notte per terminare progetti e studiare con impegno, camminiamo per il quartiere latino e per il Marais. András ha una borsa di studio, ma i primi torti nei confronti degli ebrei iniziano a farsi sentire, e la borsa di studio non viene mai pagata; András si mette d’impegno, e trova lavoro come tuttofare in un teatro, dove entra nelle grazie del direttore, dei lavoratori, degli attori. E sarà proprio la cantante d’opera del teatro a fargli conoscere Klára, anche lei ebrea, anche lei di origine ungherese, di nove anni più vecchia di András, ballerina, arrivata a Parigi tanti anni fa, per una vicenda che rimarrà per un lungo pezzo del libro misteriosa.
András si innamora subito di lei, nonostante la differenza di età, di estrazione sociale, e le numerose difficoltà, non da ultimo il fatto che Klára si madre di una ragazza ormai adolescente. Ma l’attrazione fra i due è troppo forte, e inizia una bella storia d’amore.
Purtroppo, però, come abbiamo detto, siamo alla fine degli anni 30, siamo a Parigi, e i due protagonisti sono ebrei. Ad András non viene rinnovato il permesso di soggiorno, ed è costretto a tornare a Budapest. Inizia qui la seconda parte del libro, sempre più toccante e difficile man mano che passano le pagine e con loro gli anni. András, suo fratello e i loro amici entrano ed escono dal Munkaszolgálat, il servizio di lavoro coatto a cui sono sottoposti gli ebrei, in condizioni difficilissime e sempre peggiori.
Non aggiungo altro, se non che il libro è veramente bello, e toccante. Ci catapulta a Parigi, e sembra di essere lì; ci porta a Budapest, ci fa conoscere le tradizioni ebree, ci commuove con la storia d’amore, e ci fa piangere nella seconda parte del libro. L’autrice è americana, vive a Brooklyn, ed è del 1973, ma si presenta già, con questo suo romanzo d’esordio, come una grandissima scrittrice (ha scritto a dire il vero anche Quando ho imparato a respirare sott’acqua, ma è una raccolta di racconti, e in Italia è fuori catalogo).
Qui una bella intervista a Julie Orringer (in inglese).
*giuliaduepuntozero
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