Senza scomodare tutte le teorie dei decenni scorsi sulla “morte del romanzo”, la questione, più concretamente, è: il romanzo è ancora una forma di espressione capace di produrre conoscenza profonda del mondo e di noi stessi?
Come ci ha ricordato anche ieri Enrico Franceschini su La Repubblica
(forse semplificando un po’ i toni del dibattito), Europa e Stati Uniti si stanno interrogando sulla salute del romanzo (sì insomma lo stanno facendo soprattutto i critici) come forma artistica capace di lasciare un segno sulla società.
Insomma, quanto conta il romanzo contemporaneo?
Riesce a soddisfare la nostra aspirazione a conoscere il mondo, le persone vicine e quelle lontane, le dinamiche storiche profonde?
Quanti romanzi italiani, diciamo dell’ultimo decennio, ci permettono di rispondere sì a queste domande? E quanti sono quelli stranieri capaci di farlo?
In Italia forse solo Gomorra, che, però, fatichiamo a definire un romanzo: andrebbe collocato infatti in quella categoria di “narrative nonfiction”, nella quale, secondo i critici più radicali come Lee Siegel, si troverebbe la vera scrittura di rilevo di questi nostri anni.
Una categoria che va dalle intricate storie-memorie di W.G. Sebald al crudo realismo del giornalismo narrativo alla Kapuscinski, o, in America, ai libri di David Remnick , per non dover sempre citare Truman Capote, Tom Wolfe (potremmo fare un alunga lista di questa “categoria”, ma non è questo che interessa adesso)
Evitiamo così di essere pignoli, e diciamo:
la scrittura elaborata in storie di lungo respiro ha ancora un vero impatto sulla società? Interessa? Viene discussa? Riempie le giornate?
(A giudicare dall’attesa in America per il nuovo romanzo di Jonathan Franzen viene da dire che rubricare il romanzo come irrilevante pare un po’ eccessivo.)
[ovviamente sulla questione torniamo presto]
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