
Credo che dovremmo ringraziare Giorgio Diritti per quanto ci ha regalato con il suo film L’uomo che verrà.
Non solo per il tema (una famiglia contadina sulle colline bolognesi vicino a Marzabotto nei giorni terribili che culminarono nelle stragi effettuate dai nazisti nell’autunno del 1944) ma per la forma con cui lo ha svolto.
Nessuna retorica.
Vediamo la vita quotidiana, difficile e dura, povera, dei contadini, nella quale entra la violenza incomprensibile dell’occupazione nazista.
L’orrore della guerra lo sentiamo proprio entrando in quelle famiglie, vedendo la loro vita grama, quasi annusando le stalle, le stanze, sentendo per loro un’empatia istintiva ancora prima del giusto pacifismo razionale.
Ma Diritti tutto ciò non ce lo spiega, non lo drammatizza, non lo avvolge in un plot, in una trama complessa, la storia è veramente esile, quasi solo accennata.
In un film di grande rigore formale, usa le immagini, i volti, i suoni (il dialetto – con i sottotitoli – il tedesco non sottotitolato, la musica) per ricordare tutte le vittime di quella guerra.
Usa per qausi tutto il film gli occhi di Martina, una bambina che da tempo non parla, ma guarda e indica il mondo, quel mondo.
E noi lo guardiamo con lei.
Anche le facce di ragazzi dei soldati tedeschi che scherzano e comprano le uova, facce nelle quali la camera di Diritti non cerca di trovare nessuna ferocia inevitabile, necessaria. Quella ferocia che invece esploderà poi, inspiegabile agli occhi di Martina ma anche ai nostri.
Lo sguardo di Martina, della sua mamma, del padre e di tutta la famiglia è lo sguardo del mondo contadino piegato su se stesso, incapace di capire la storia che lo sta travolgendo.
Anche quando i giovani decidono di andare con le bande partigiane, lo fanno senza proclami, è giusto andare e basta. Il perché non viene mai articolato.
Durante i giorni delle stragi, vediamo il padre di Martina fuggire nei boschi, dopo che una bomba a mano gli è esplosa vicina: lo shock, lo stordimento ci viene trasmesso in scene nelle quali i suoni del film diventano quelli distorti, confusi che sente l’uomo: la camera si muove vicina a lui, noi sentiamo sulla pelle l’impossibilità di organizzare un pensiero che dia un senso a quegli eventi.
L’uomo che verrà è un film moralmente necessario ma anche artisticamente molto bello: su tutto mi pare lasci il segno l’uso essenziale delle immagini, quasi sempre capaci di narrare da sole. Come ha scritto Mereghetti sul Corriere della Sera: un capolavoro.
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