
L’ubicazione del bene, di Giorgio Falco (Einaudi) ha suscitato articoli pieni d’entusiasmo. Mi hanno inglosito fino a farmelo comprare. È una raccolta di racconti (meno di 150 pagine) tutti ambientati a Cortesforza, sobborgo (immaginario ma verosimile) di villette a schiera appena fuori da Milano. È un libro che merita di essere letto. Tuttavia ho qualche riserva.
Cortesforza, “Vicinanze tangenziale Ovest”: ci abita gente che “trova sensato fare venti chilometri per andare al centro commerciale più vicino a compare sei bottiglie d’acqua minerale”. Nei racconti è indagato quel tipo di essere umano. Quello cioè che decide di andarsene dalla città stressante per vivere finalmente in un “contesto più a misura d’uomo”, salvo poi stressarsi sulla tangenziale per andare a lavorare tutte le mattine o per fare la spesa. Perché – a chi vive dalle mie parti è noto – “soli quindici chilometri da Milano” significano quarantacinque minuti di coda in automobile tra statali e tangenziali.
Il libro racconta, rappresenta, indaga, spia questo tipo di sobborghi, il tipo di persone che li abitano, il tipo di vita che quel luogo induce negli abitanti.
Lo stesso autore ha dichiarato: “Il suburbio residenziale è un’ambientazione quasi naturale per la letteratura americana, mentre la letteratura italiana non aveva ancora esplorato i sobborghi in modo ossessivo. Io ho cercato di farlo”.
E io direi che ci è pure riuscito. Altro che Ossessivo! Tutti gli stereotipi dell’uomo in tuta e ciabatte, tagliaerba in azione, monovolume da lavare, gita allo zoo safari con i bambini, taverne, box doppi e altri aspetti della vita “in campagna ma a due passi dalla città” sono compilati uno dopo l’altro. E lì, tra siepi ben curate e piste cilcabili, gli abitanti di Cortesforza mettono in scena i loro drammi silenziosi: fallimenti, frustrazioni, comportamenti indotti da modelli di vita falsi, incomunicabilità… Per sintetizzare: due palle infinite!
Un momento: L’ubicazione del bene non è un brutto libro, anzi; alcune pagine sono davvero belle. E l’operazione di Giorgio Falco non è disonesta. Solo, è un libro un po’ velleitario. Mi spiego.
Trovo legittimo applicare il fuoco della propria lente d’ingrandimento su un solo aspetto della vita in un sobborgo. Trovo legittimo, cioè, concentrarsi unicamente sull’aspetto prescelto e tralasciarne molti altri. Falco lo ha fatto puntando la luce sull’aspetto in ombra. Anche altri lo hanno fatto, prima di lui, negli Stati Uniti. A parte Yates, ad esempio, lo ha fatto Breece D’J Pancake (guardando la classe proletaria dei monti Appalachi). Lo ha fatto Raymond Carver (guardando la middle class americana). La differenza tra Falco e Carver o Pancake, però, sta nella profondità dello sguardo. Quello del nostro autore si ferma troppo presto, secondo me, resta in superficie, resta insomma un po’ troppo impigliato nel pregiudizio con cui si immagina una vita di plastica. È la consolatoria rappresentazione di una vita che è senza senso perché è calata in un contesto senza senso. Qualcuno potrà cedere alla tentazione di credrere alla bontà di questa teoria, ma sappia che si tratta pur sempre di una teoria (un bel po’ snob, aggiungerei).
Insomma: le vite raccontate da Falco non suonano finte o inverosimili, e va bene, si può scegliere di raccontare il lato oscuro di chi vive a Cortesforza. Ma non si può negare o nascondere che anche chi vive a Cortesforza possa essere un uomo o una donna autentico (o autentica). Possa essere cioè un essere umano capace di sperare, sognare, coltivare cultura e serietà, godere di un amore felice, apprezzare un bel momento. Essere, se non felice, almeno contento! Possibile che in 150 pagine non ce ne sia traccia? Non ci sia un sorriso? Non uno!
Nei sobborghi, credo, vivono anche persone dotate di immaginazione. Herbert Marcuse, mentre viveva in Usa, abitava in un sobbogo molto simile a Cortesforza. In California. Tra case basse tutte uguali e l’auto di fianco al giardinetto. Proprio lui, quello dell’Uomo a una dimensione. Con l’Immaginazione al potere…
Qualcuno di voi ha letto il libro di Giorgio Falco?
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