Discussione intensa ieri sera al gruppo di lettura della Biblioteca di Cologno Monzese a proposito del libro di Mario Calabresi, Spingendo la notte più in là (Mondadori).
Provo qui a sintetizzare alcune delle mie impressioni di lettura. Non intendono in alcun modo esprimere quelle degli altri partecipanti alla discussione, anche se, su alcune questioni, ci siamo trovati in sintonia.
Ho letto il libro di Calabresi come un invito a considerare il punto di vista, le sofferenze, le vite sconvolte di chi ha visto i propri cari morire ammazzati dai terroristi. Di chi ha visto le loro personalità, diverse e complesse appiattite nel ruolo di “vittime del terrorismo” e in quel ruolo nell’ombra abbandonate. Di chi si è sentito abbandonato, isolato nel silenzio, ignorato dalle istituzioni.
E ci invita a pensare come qualsiasi riconciliazione sia difficile e parziale e finta se non facciamo emergere il punto di vista di chi ha avuto la vita sconvolta da quei fatti, da quelle azioni.
Il punto di vista di Calabresi è anche il punto di vista di chi ha dovuto negli anni vedere gli assassini che, “riconciliati” con la società, risalgono nella vita pubblica e si esprimono con una evidenza che ferisce chi del loro passato è stato vittima.
Francamente credo che, come ha ricordato Carol Beebe Tarantelli, gli “ex terroristi” (e chi offre loro voce) non dovrebbero credere che si possa “superare quel che hanno fatto come se nulla fosse successo”. E’ giusta e certo dovuta la riconciliazione sociale; il ritorno alla vita civile di chi ha pagato.
In Italia, invece, le vittime del terrorismo hanno avuto poca voce, hanno subito l’isolamento. Del terrorismo si sono quasi sempre occupati “gli altri”: la stampa, la politica, gli ex terroristi…
Però non possiamo dimenticare come quel legame fra le due vicende fosse diventato – e ancora oggi si manifesta a volte così – una specie di narrazione forzata: l’omicidio Calabresi conseguenza necessaria, inevitabile del sequestro in questura e della successiva morte di Pinelli, come se l’uno giustificasse l’altro, o almeno lo spiegasse, fornisse una ragione valida.
Come se il rapporto causa – effetto fosse l’unico modo di interpretare quel che avvenne. Questa narrazione_contiene_ l’idea che Calabresi fosse responsabile della morte di Pinelli. E accettare questa storia, per la famiglia Calabresi è come accettare le ragioni di chi sparò alle spalle a “Papà Gigi”. Io francamente li capisco.
Del resto, il recente incontro fra Licia Pinelli e Gemma Calabresi mi pare sia il migliore esempio di come si potrebbe affrontare la questione: Pinelli e Calabresi furono entrambi vittime di idee, azioni, forze, interessi differenti ma entrambi portatori di sangue e morte.
Le due vedove si sono abbracciate, hanno sciolto il ghiaccio che le teneva lontane, hanno chiaramente mostrato e detto che quella storia che legava in un rapporto di causa e effetto la fine dei due uomini era una storia che non apparteneva a loro era una storia sempre raccontata da altri.
Martedì a mezzanotte ho iniziato a leggere il libro e l’ho lasciato alle tre: ho cercato di ricordare se in qualche corteo percorso negli anni settanta da ragazzino anche io avessi urlato lo slogan contro Calabresi…
In questi anni ho pensato tanto al terrorismo, a cosa sono stati gli anni Settanta, a cosa restava delle grandi speranze di cambiamento.
Però le vittime restavano sfocate, nascoste da altro. Il libro di Calabresi mi ha restituito questa parte della storia… Non è poco.
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