Vasilij Grossman, in una delle tante pagine di Vita e Destino dedicate alla battaglia di Stalingrado, inscena questo dialogo fra il generale Gur’ev – uno dei difensori della città, arroccato con i suoi uomini in un fabbrica – e Krimov, un commissario dell’Armata Rossa:
Poi Gur’ev cominciò a disquisire sul perché gli scrittori scrivessero così male della guerra, sui giornali.
“Se ne stanno belli nascosti a scrivere, quei figli di buona donna, non vedono nulla di persona, restano oltre il Volga, nelle retrovie. E scrivono di chi li tratta meglio. Lev Tolstoj, lui sì, ha scritto Guerra e Pace. Lo leggono da cent’anni e lo leggeranno per altri cento. Perché? Perché c’era anche lui a combattere, e sapeva di chi bisognava scrivere”
“Mi perdoni, compagno generale”, disse Krymov “ma Tolstoj non ha mai combattuto“.
“Come sarebbe che non ha mai combattuto?” chiese il generale.
“Sarebbe che non ha combattuto” disse Krymov. “Ai tempi della guerra con Napoleone Tolstoj non era ancora nato“.
“Sul serio?” domandò a sua volta Gur’ev. “E com’è che non era nato? Chi gliel’ha scritto, allora, quel libro, se lui non era ancora nato? Eh? Cosa mi dice?”.
La discussione si accese. Era la prima volta che accadeva, dopo un conferenza di Krymov. Ma con suo grande stupore, Nikolaj Grigor’evic non riuscì a convincere il suo interlocutore. (Vita e Destino, Adelphi, 2008, pag. 220, i neretti sono miei)
Invece lo storico della cultura Robert Darnton dice:
[…] oggi non mi fido dei giornali come fonti di informazione e spesso mi stupisco del comportamento degli storici che li assumono come fonte primaria per sapere ciò che è accaduto. Penso che i giornali dovrebbero essere letti per avere informazioni su come i contemporanei hanno ricostruito gli eventi invece che per ottenerne attendibili sugli eventi stessi. (The New York Review of Books, “”The Library in the New Age”, traduzione: “La nuova era delle biblioteche”, La Rivista dei Libri, gennaio 2009)
La sensazione, nei giorni scorsi del terremoto in Abruzzo è stata proprio questa: i media, soprattutto la televisione, ma anche i giornali, purtroppo, sembravano spesso curiosi, voyeur, arruffati esibitori di indignazione e dolore a buon mercato; erano, al massimo interessanti per capire cosa sono diventati: non per capire quel che accadeva e perché è accaduto.
Certo siamo consapevoli che le notizie non sono mai “ciò che è accaduto” ma “storie su ciò che è accaduto”.
Ma proprio il carattere e la qualità di queste “storie” fanno la differenza.
Ci avvicinano al senso – ragione e emozione – degli eventi, alle concatenazioni, al contesto, ai singoli collocati nel tessuto collettivo?
Oppure sono stereotipati elenchi di episodi, ricerche delle lacrime e dei volti disfatti di sopravvissuti e della smorfia impacchettata in un lifting dell’autorità in visita fra le macerie? Servono a capire o solo a far sentire lettore e spettatore partecipi, dalla poltrona?
Per capire questi eventi, non servirebbero più narratori e meno gli scatenati e rampanti inviati affamati della diretta?
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